Una Turandot da applausi a scena aperta sul palco del Teatro Ponchielli, un’opera in tre atti e cinque quadri, tratta dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi, libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, per le musiche di Giacomo Puccini e il finale di Franco Alfano. Dopo aver esplorato il Giappone in Madama Butterfly e il
Una Turandot da applausi a scena aperta sul palco del Teatro Ponchielli, un’opera in tre atti e cinque quadri, tratta dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi, libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, per le musiche di Giacomo Puccini e il finale di Franco Alfano. Dopo aver esplorato il Giappone in Madama Butterfly e il Far West in La fanciulla del West, per il suo ultimo melodramma Puccini scelse la Cina con le sue suggestioni musicali.
Il capolavoro pucciniano dal sapore esotico ha convinto il pubblico del Ponchielli con un allestimento intenzionalmente “astratto” nella versione del regista Giuseppe Frigeni, che ha ripreso quella realizzata al Comunale di Modena nel 2003. Tradizionale l’impianto ma senza i fasti del palazzo di Pechino, per uno stile registico che non ha voluto provocare ma piuttosto focalizzare l’attenzione degli spettatori sulle “pieghe del tessuto armonico”, come le ha definite lo stesso Frigeni nelle note di regia.
L’idea di comporre Turandot nacque dall’incontro con l’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi, drammaturgo veneziano coevo di Carlo Goldoni, che scrisse molti testi teatrali di successo successivamente musicati. Fulcro della vicenda di Turandot è l’evoluzione interiore della protagonista che da “principessa di gelo” si tramuta in donna innamorata, complice la progressiva infatuazione per il principe Calaf, ma soprattutto L’effetto che ebbe su di lei il sacrificio di Liù, che per amore rinuncia alla sua stessa vita. La scena della morte di Liù rappresenta l’ultima pagina musicale completata da Puccini, che abbozzò alcune parti del finale senza poterlo completare per morte improvvisa, causata da un incurabile tumore alla gola. Su indicazione di Arturo Toscanini, direttore designato per la prima assoluta dell’opera, l’editore Ricordi affidò il completamento del finale di Turandot a Franco Alfano, già allievo del compositore toscano.
Nell’ultimo melodramma pucciniano le impressioni musicali hanno un sostanziale spessore, caratterizzato da un filo di costante inquietudine nel tentativo di trasformare la gelida Principessa in una donna innamorata.
Efficace partecipata e attenta la direzione di Carlo Goldstein dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, che ha ben risposto alla bacchetta del maestro. Buona la performance del Coro di OperaLombardia, istruito da Diego Maccagnola, mentre meno tecnicamente preciso il Coro di voci bianche Mousike’ Smim Vida di Cremona diretto da Raul Dominguez.
Fra le voci spicca il soprano Maria Teresa Leva nel ruolo di Liù, che interpreta da vera fuori classe tutta la sua partitura, emozionandoci nella celeberrima Tu che di gel sei cinta. Fiati ben sostenuti, una perfetta linea di canto, agilità vocale. Sicuramente un promettente talento della Scuola italiana. Buona la prova di Teresa Romano nei panni di Turandot che si contraddistingue per una tecnica ineccepibile e per un vocalità piena, e di Alessandro Spina che interpreta finemente Timur, grazie alla sua vocalità profonda e ben proiettata. Bella la voce di Rubens Pelizzari, a nostro avviso, non adatta al ruolo di Calaf, e buone le vocalità e la verve scenica Leo An (Ping), Saverio Pugliese (Pang) ed Edoardo Milletti (Pong).
Nella storia del melodramma ritorna molto spesso il tema degli enigmi da svelare, intesi come ardue prove da superare. Gli enigmi creano pathos, attesa, trepidazione, ma rispecchiano anche l’animo della giovane e bella “principessa di gelo”, con la sua interiorità apparentemente fredda, distaccata, crudele, ma in realtà specchio di un’anima sensibile, tenuta nascosta e resa impenetrabile. Essa inconsapevolmente chiede, attraverso la sua imperscrutabilità, di essere svelata e Calaf, il suo pretendente più audace e tenace, è l’unico a riuscire a varcare la soglia del mistero che si cela dietro di lei e a conquistare il suo cuore, piegandola al suo amore. La principessa, apparentemente sconfitta, in realtà esce vittoriosa dalla prova perché il suo pretendente, risolvendo gli enigmi, le offre finalmente l’occasione di rivelarsi e di vivere.
La preoccupazione di Puccini di non riuscire a completare l’opera e di non poter trasformare la fredda principessa in una donna innamorata coincide con la sua lotta contro la malattia. In viaggio a Bruxelles, non farà più ritorno, lasciando l’opera incompiuta.
A Puccini nel finale premeva “commuovere”, ma “senza retorica”. Egli stesso affermava: Il travaso d’amore deve giungere come un bolide luminoso in mezzo al clangore del popolo che estatico lo assorbe attraverso i nervi tesi come corde di violoncelli frementi.
Un’opera fortemente intrisa di inquietudine, di sospensione e di trepidazione, sentimenti che diventano tutt’uno con l’inquietudine dell’autore al termine della sua vita.
Nell’allestimento Giuseppe Frigeni ha lavorato sul materiale musicale, nel tentativo di dar forma al tessuto armonico, cogliendo impressioni visive, spaziali e dinamiche, descritte e rappresentate in spazi austeri, con colori scuri e densi di mistero, con elementi scenici non troppo appariscenti che dovevano evocare più che descrivere. Sulla scena spiccano e risaltano per la loro particolarità e raffinatezza i giochi di trasparenze e di controluce, i contrasti, le atmosfere sospese, i piani in slittamento e movimento.
Non emerge nessuna insistenza descrittiva nella rievocazione degli ambienti esotici pechinesi e delle cineserie da salotto, piuttosto una predilezione per l’astrazione e l’essenzialità evocativa in una sinergia assoluta tra musica, coreografie e movimenti scenici.
Turandot (Teresa Romano) è presentata nella sua fragilità che traspare dietro un’apparente durezza e crudeltà: una donna dalla personalità umiliata e disperata, bisognosa di affetto sincero e disinteressato. In questo Frigeni si è volutamente discostato dalla concezione maschilista e compiaciuta di un personaggio imperturbabile e spietato per sottolinearne invece una sensibilità tutta umana con tutte le sue fragilità.
Il padre Timur (Alessandro Spina) è presentato nella sua saggezza arcaica come testimone silenzioso di fronte a un Calaf (Rubens Pelizzari) competitivo, divorato da ambizione e potere sfrenati, in forte contrasto con Altoum (Marco Voleri), simbolo di una saggezza istituzionale e statuaria. Calaf non è l’eroe che combatte per amore, ma per fare emergere la sua virilità, per desiderio di potere e di autoaffermazione, incurante di tutto e di tutti.
La dolcissima Liù (Maria Teresa Leva) si contrappone a Turandot per rappresentare l’amore devoto e fedele che porta al sacrificio di sè per l’amato, un amore altro rispetto a quello sacrificale e devoto della principessa. Liù e Turandot non sono personaggi contrapposti, le due donne si completano nella loro assoluta diversità.
Il finale duettato è emotivamente complesso e rende senza retorica la trasformazione della protagonista in lotta contro le sue contraddizioni.
Deliziose le danzatrici per la loro grazia ed eleganza ed i loro gesti precisi e ricercati, rappresentate da Stefania Benedetti, Marina Frigeni ed Elisabetta Rosso; e presenti e precise le ancelle (Myrta Montecucco, Paola Giacalone, Afra Morganti e Mariasole Mainini).
Odette Alloati
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