– 3…2…1… eee in onda! – Il Teatro Franceschini di Pavia si trasforma per tre serate in uno studio televisivo. Progetto ambizioso e ben studiato in tutti i suoi dettagli, quello che ci propone Francesco Micheli, che prevede una completa trasformazione dello spazio teatrale coinvolgendo l’intera sala in questa metamorfosi immersiva. La consapevolezza del medium
– 3…2…1… eee in onda! –
Il Teatro Franceschini di Pavia si trasforma per tre serate in uno studio televisivo.
Progetto ambizioso e ben studiato in tutti i suoi dettagli, quello che ci propone Francesco Micheli, che prevede una completa trasformazione dello spazio teatrale coinvolgendo l’intera sala in questa metamorfosi immersiva.
La consapevolezza del medium utilizzato risulta fondamentale per lo scopo e il messaggio che questo Così Fan Tutte intende portare alla società contemporanea, partendo dal ruolo che giocava il teatro all’epoca della prima rappresentazione della pièce, il 26 gennaio 1790.
Ora i tempi saranno anche cambiati, ma il ruolo provocatorio e rivoluzionario del teatro è rimasto lo stesso, anzi, ha un nemico in più oltre la società stessa: la televisione.
L’allestimento proposto si avvale così di armi innovative per vincere questa eterna battaglia.
Tutta la vicenda si svolge in un set televisivo, partendo dal casting e arrivando alla diretta televisiva con tanto di intervallo durante il quale il sipario viene lasciato aperto e gli spettatori prendono parte e diventano anche loro partecipi dello studio televisivo che si estende così all’intero teatro, rompendo la quarta barriera tra palcoscenico-platea e attore-spettatore.
Innanzi tutto l’utilizzo del colore, che ritroviamo protagonista nei costumi di Giada Masi e nelle scene di Nicolas Bovey e degli alunni partecipanti che hanno collaborato alla produzione dell’opera grafica, risulta essere uno strumento potentissimo: ci mette davanti nudo e crudo il conformismo camuffato e il controllo mediatico della televisione grazie alla dominanza del grigio medio – tonalità di grigio sul quale sono tarati tutti i dispositivi fotografici moderni (sottile critica verso la facilità di utilizzo del mezzo fotografico?) – che amplifica il contrasto con i colori che si susseguono durante la rappresentazione (blu, verde, rosso e giallo) e il loro significato simbolico intrinseco.
In seconda analisi, lo studio del personaggio è un’altra componente chiave e ben realizzata, nonostante le figure di Fiordiligi (Gioia Crepaldi) e Dorabella (Victoria Yarovaya) sembravano perdere carattere rispetto agli altri personaggi, tutti meticolosamente impostati e ricercati, ben sostenuti dal Coro OperaLombardia e dalla musica dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano che sotto la direzione dei maestri Dario Grandini e Giuseppe Califano sono riusciti ad accompagnare l’opera in maniera efficace e non invasiva, rivelandosi collante fondamentale nell’intero svolgimento della pièce.
Gli highlights, tornando a termini televisivi, sono stati molteplici, ma vorremmo soffermarci su alcuni dettagli che ai nostri occhi di spettatore si sono rivelati più importanti di altri.
Partendo dall’utilizzo del microfono come mezzo mediatico, simbolo del duello e del peso delle parole che spesso feriscono più della lama di una spada, passiamo poi alla grande metafora della guerra, vista come svago e intesa come conformismo che sottomette i personaggi, facendo indossare loro delle giacche grigie tutte uguali. Giocando in seguito attorno alla parola inglese FUN – divertimento (composta da delle lettere tenute in mano dai militari) che poi si trasforma, diventando la sigla che ci introduce all’opera annunciandone il titolo all’interno del quale troviamo l’assonanza di FAN con la suddetta parola inglese. Davvero un tocco di classe, non c’è che dire.
Ancora una volta entra in gioco la tecnologia arrivando in soccorso ai due personaggi maschili Ferrando (Matteo Mezzaro) e Guglielmo (Pablo Gàlvez), ormai abbattuti da Don Alfonso (Andrea Porta), come anestetico per le loro pene d’amore.
Vocalmente tutti assolutamente all’altezza del ruolo, con una particolare menzione a Barbara Massaro nei panni di una grintosa e brillante Despina.
Per concludere vorremmo spezzare una lancia in favore di un elemento che ha scaturito molto scalpore e tanto sdegno (purtroppo) nella maggior parte degli spettatori: la nudità. Durante lo spettacolo infatti è capitato spesso di assistere a scene in cui i personaggi si spogliavano, restando così in biancheria intima. La cosa però non è andata giù ai dinosauri del settore, che hanno visto il gesto come un affronto o come riempimento di “spazi vuoti”. Citiamo testuali parole: Quando non sapevano che fare si spogliavano e via *risatina superba*.
Ebbene ci rallegriamo che tale rappresentazione abbia scaturito certe reazioni, sbattendo in faccia una realtà che difficilmente riescono a distinguere guardando le loro amate serie TV o i seguitissimi fantastici reality show. Della stessa materia è fatta la società dello spettacolo oggi.
Allora si nota la maestria nell’utilizzo di un medium caldo come il teatro: questa pièce in particolare ha una trasparenza così sottile da farci immergere nella scena e farci provare la sensazione di essere un TELEspettatore seduto davanti alla propria bella mangia-coscienze, col telecomando in mano e il cervello svuotato. Situazione che non possiamo negare di aver vissuto anche noi inizialmente. Ma una cosa scandalizza perché si rivela davanti agli occhi vera, cruda, non più filtrata: la carne umana in tutta la sua fattezza che distingue l’uomo cosciente dal soggiogato. Ipocrita tabù.
Samuele Maritan
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