Chi non ha ancora visto Torneranno i prati si affretti: non è un film da perdere né da recuperare in dvd e vedere nel proprio solitario salotto. L’ultimo film di Ermanno Olmi, uscito in anteprima proprio il 4 novembre, si potrebbe forse inserire tra le iniziative culturali legate al centenario della grande guerra, se non
Chi non ha ancora visto Torneranno i prati si affretti: non è un film da perdere né da recuperare in dvd e vedere nel proprio solitario salotto.
L’ultimo film di Ermanno Olmi, uscito in anteprima proprio il 4 novembre, si potrebbe forse inserire tra le iniziative culturali legate al centenario della grande guerra, se non fosse che Olmi alla guerra e alla lotta umana contro l’insensatezza ha dedicato più di un film.
La vicenda – liberamente tratta dal racconto La paura di Federico De Roberto – si svolge in una notte sul fronte nord-est italiano, quando Caporetto è già nell’aria. L’avamposto italiano è formato da pochi uomini, senza nome, che i titoli di coda ci fanno recuperare nella loro forza di archetipi (il Maggiore, il Tenentino, il Capitano, il Dimenticato, il Conducente di mulo e così via): nella montagna bianca e silenziosa, il canto napoletano Tu ca nun chiagne del soldato che porta le lettere e il rancio si leva come voce umanissima che commuove i soldati austriaci, vicinissimi, e che in fondo è rivolta anche a loro. La contiguità con il nemico, del resto, non è solo un dato logistico, ma ha il senso della condivisione di un uguale destino di morte.
Dagli alti comandi arriva l’ordine di occupare una posizione più avanzata di pochi metri, ritenuta strategicamente importante per controllare i movimenti nemici. Si cerca un “volontario” per l’impresa suicida di uscire allo scoperto e offrirsi ai cecchini: il primo soldato muore a pochi passi dalla trincea; il secondo preferisce spararsi alla gola. Altri moriranno sotto le cannonate austriache, che illuminano la notte già bianca per i riflettori e per la luna. Tutta la natura partecipa al massacro: una piccola volpe spaurita cerca riparo dai colpi, un larice già malandato si fa d’oro nella fantasia di due soldati prima di morire bruciato dal fuoco innaturale dell’artiglieria.
Nel film di Olmi tutta la storiografia degli ultimi vent’anni è presente, così come gli epistolari di letterati e illetterati. Veneti e napoletani si capiscono al di là delle lingue diverse che parlano; i soldati sopravvivono alle bombe, al freddo e alla spagnola più grazie alle lettere ricevute che non grazie alle trincee, ricostruite per il film a 1800 metri di altezza e sotto tre metri e mezzo di neve. Lo Stato Maggiore è il nemico più insidioso nella sua invisibilità. La notte si confonde con il giorno, il cielo è perennemente illuminato, neanche il buio può proteggere chi esce allo scoperto. Tutto questo è presente in Torneranno i prati, ma non bisogna aspettarsi un’azione narrativa che mostri o spieghi cosa è stata la madre di tutte le grandi guerre del secolo passato e presente. Il film è più accostabile ad una poesia che a un racconto. Una poesia minimalista in apertura, quando i titoli di testa accompagnano la presentazione di una serie di umili oggetti bellici e quotidiani. Una poesia più intimista e umana, quando la macchina da presa si sofferma sui volti sofferenti dei soldati. Non è concesso nessuno spazio a dannunziani vagheggiamenti della “guerra giusta”: quando il maggiore chiede a un soldato se è partito volontario, lui risponde semplicemente: “io, no”.
Il centenario che si celebra quest’anno deve essere un’occasione per la memoria. Come ha spiegato Ermanno Olmi in un’intervista commovente, registrata presso l’ospedale San Raffaele di Milano, il film non vuole celebrare nulla, vuole piuttosto contribuire alla presa di coscienza di una responsabilità e di una colpa verso i milioni di uomini caduti durante la prima guerra mondiale. E’ anche un omaggio al padre del regista, che con i racconti della sua esperienza da bersagliere gli ha fatto conoscere il lato intimo e segreto della guerra.
Non ci sono gesti eroici e idealizzati, né concessioni al gusto da macelleria di molti film recenti sulla guerra. Non prevale il colore rosso del sangue, ma quello bianco della neve sull’Altopiano dell’Asiago, che evoca l’oblio che nasconde i prati ma non può cancellarli per sempre.
La storia – come la natura dei filosofi antichi – assume l’aspetto di una forza cieca e distruttiva, che aggrega e disgrega insensatamente la materia, mentre dovrebbe essere memoria e parola. Gli attori – come fantasmi che ci parlano da una dimensione altra ma vicina – talvolta guardano verso la macchina da presa e si rivolgono direttamente allo spettatore, chiedendo di essere ricordati (“Non c’era la morte nei nostri sogni”, dice uno di loro): nessuna retorica, niente di didascalico in questa interpellazione potente ad uscire fuori dalla propria zona grigia. Per questo, come si diceva all’inizio, non è film da vedere in dvd, comodamente a casa, ma al cinema, tra sconosciuti.
Il grande schermo e il buio di una sala cinematografica rendono maggiore giustizia ad una montagna e ad una luce belle da togliere il fiato; perfino Olmi, questa volta, ha collocato Dio ad una giusta distanza dalla storia.
Gianna Cannì
SCHEDA FILM
DATA USCITA: 06 novembre 2014
GENERE: Drammatico
ANNO: 2014
REGIA: Ermanno Olmi
SCENEGGIATURA: Ermanno Olmi
ATTORI: Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Niccolò Senni, Domenico Benetti
FOTOGRAFIA: Fabio Olmi
MONTAGGIO: Paolo Cottignola
DISTRIBUZIONE: 01 Distibution
PAESE: Italia
DURATA: 80 Min
[Immagini da: farefilm.it, ilfattoquotidiano.it, enricogianmarco.com, asiago.it]
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