Ieri, 2 maggio, scorpacciata di film al Torino Gay & Lesbian Film Festival in un crescendo che ci ha fatto tornare a casa veramente emozionati e contenti. Abbiamo cominciato alle 14.30 con l’argentino Fulboy di Martín Farina, un docu-fiction antropologicamente e sociologicamente molto debole, che avrebbe voluto investigare il mondo del calcio dove la tv non entra mai:
Ieri, 2 maggio, scorpacciata di film al Torino Gay & Lesbian Film Festival in un crescendo che ci ha fatto tornare a casa veramente emozionati e contenti.
Abbiamo cominciato alle 14.30 con l’argentino Fulboy di Martín Farina, un docu-fiction antropologicamente e sociologicamente molto debole, che avrebbe voluto investigare il mondo del calcio dove la tv non entra mai: gli spogliatoi, le stanze d’albergo dei ritiri, la vita privata. Grazie al fratello Tomás, il regista ha accesso a questo retroscena, intervistando gli atleti, discutendo con loro, chiedendo le loro opinioni, provocandoli, pungolandoli nei momenti in cui sono più vulnerabili. Ma allo stesso tempo filma il loro sensuale candore nell’intimità, mentre sono a letto, sotto le docce, in pose audaci, mescolando curiosità, indagine e voyeurismo. In alcuni casi viene visto come un intruso, in altri come un interlocutore inatteso alla ricerca di confessioni spesso spiazzanti. Nonostante le intenzioni siano ben altre, ciò che arriva a noi non è sicuramente l’aspetto investigativo e di riflessione quanto quello dello spiare corpi prestanti, volendo forzatamente far emergere un erotismo di taglio omosessuale.
È la volta, alle 18.00, del filippino Kasal (The Commitment) diretto da Joselito Altarejos (anche co-sceneggiatore) e che racconta la storia di Paolo, filmmaker, e Sherwin, avvocato, che stanno insieme da tre anni. Dopo l’entusiasmo che ha caratterizzato i primi tempi della loro relazione, il tradimento commesso dal primo ha messo tutto in discussione. Nonostante il dolore e le recriminazioni, i due decidono di andare avanti, seppur con qualche difficoltà. Questo momento di sbandamento viene acuito dalla partecipazione al matrimonio della sorella di Sherwin. I motivi del malessere sono molteplici: la difficoltà di essere una coppia gay in una società conservatrice come le Filippine, l’inevitabile e frustrante confronto con la cerimonia “etero” per eccellenza, l’ombra dell’infedeltà commessa da Paolo. Melodramma che prova a “costruire” un’identità più che a smantellare gli ideali, che fotografa lo status quo filippino, ma che manca di verve e che a volte si trascina. Le caratterizzazioni dei due protagonisti e delle loro origini è chiara, anche se, a nostro avviso, è mancato lo sforzo per approfondire con la stessa chiarezza la loro relazione, schiacciata dalle pressioni sociali e dalle scelte professionali non condivise di Sherwin.
Alle 20.30 ci siamo immersi nel francese L’Art de la fugue per la regia di Brice Cauvin (anche co-sceneggiatore), al centro del quale Antoine, i suoi fratelli, Gerard e Louis, e la sua famiglia di origine. L’imbranato Gerard, reduce da un divorzio, è tornato a vivere dai genitori, con cui gestisce un negozio di abbigliamento. Louis, iperattivo uomo d’affari, sta per sposare Julie ma la tradisce con Mathilde, per cui ha perso la testa. E, infine, l’intellettuale Antoine che da anni fa coppia fissa col compagno Adar, uno psicologo. Nonostante la predisposizione a non lasciarsi coinvolgere e qualche sbandamento sentimentale, è proprio Antoine, il gay, a mantenere unita la famiglia, dispensando consigli e prodigandosi, suo malgrado, nel risolverne i problemi. Tradimenti, bugie ed equivoci danzano sullo schermo in questa commedia degli amori, che vanta un ottimo cast (su tutti Marie-Christine Barrault), ispirata a un romanzo dell’americano Stephen McCauley (da cui fu tratto il gay friendly L’oggetto del mio desiderio) traslocata dal Massachusetts a Parigi. Toccante, interessante, fresca, malinconica e al tempo stesso capace di strapparti un sorriso, questa pellicola induce alla riflessione sulla vita, sulle strategie attuate per confrontarsi con l’altro, sulle pressioni sociali che condizionano il nostro agire e sui gradi di libertà che abbiamo soprattutto nel fare le nostre scelte. Vivere di rimorsi o di rimpianti? Questo è il fil rouge che accompagna l’evoluzione di tutti i personaggi e delle loro relazioni, non solo amorose, ma anche famigliari, affettive, amicali e professionali. E mentre Antoine lascia in aeroporto il suo cellulare, destinato alla distruzione, finalmente si rimpossessa della sua vita, volando verso la realizzazione di quello che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni uomo: la felicità. Un film convincente, ben interpretato e ben diretto, con una sceneggiatura veramente curata e ricca.
E in fine siamo stati totalmente rapiti da A escondidas diretta da Mikel Rueda che ne firma anche la sceneggiatura, un vero inno, intelligente alla diversità. Il film racconta la storia di due adolescenti che si riscoprono molto più che amici. Lo smaliziato Ibrahim (Sergio Kouh), cupo, schivo e solitario, è un marocchino entrato illegalmente in Spagna che vivacchia spacciando. Quando viene arrestato il suo destino è segnato: ad attenderlo il rimpatrio forzato in Marocco. L’unica soluzione è raccogliere le sue poche cose e darsi alla fuga per le strade desolate della periferia di Bilbao. Rafa sta capendo di essere gay ma è ancora ingenuo: non si trova più con i suoi coetanei e non sa come comportarsi con Marta, che da lui vorrebbe qualcosa che non potrà mai avere. A unire Ibra e Rafa (Germán Alcarazu) sono i loro quattordici anni e la discriminazione che subiscono: i difficili cammini dei due ragazzi s’incroceranno e prenderanno un’unica direzione, quella di vivere appieno la loro età. A escondidas descrive la sorte comune di due categorie deboli della società: gli immigranti e gli omosessuali. Nonostante la presunta apertura oggi sono ancora imperanti, anche tra i giovani, razzismo e sessismo, e la paura della diversità regna sovrana e condiziona la vita dei singoli, vittime delle pressioni sociali, e le relazioni che tessono con gli altri. Solo l’amico Guille saprà andare oltre il pregiudizio, seppur non comprendendo appieno quanto sta occorrendo a Rafa, “coprendolo”, rassicurando la madre e donandogli tutti gli euro che aveva: lo fa in nome di un affetto vero, autentico e collaudato. Alla fine, infatti, è la forza dell’amore il motore che permette la trasformazione dei due protagonisti e che sancirà la loro unione simbolicamente rappresentata dal talismano dell’amicizia che Ibrahim regalerà all’amico spagnolo. Nella conclusione del film, quando la separazione è prossima, lo stesso arabo prenderà per sé una delle due parti del talismano, a testimonianza dell’unione indissolubile tra i due. Mikel Rueda, ricordando il cinema di Andrè Téchiné, sa raccontare la prima adolescenza con fermezza e audacia, come se ci fosse dentro qualcosa di suo, delle sue inquietudini di quegli anni. Il tatto, l’attenzione a non cadere mai nei luoghi comuni, la liricità della sceneggiatura, la non sequenzialità del montaggio che rappresenta tecnicamente quanto i due protagonisti fossero totalmente persi, in balia degli eventi, e l’eccezionale perfomance dei giovani protagonisti, ci conquistano e ci tengono bloccati alla poltrona. E mentre seguiamo lo sviluppo della storia siamo accompagnati da una colonna sonora ricca che prende spunto dagli anni Ottanta e Novanta. Molto interessante e partecipato il dibattito che ha seguito la proiezione del film dove abbiamo apprezzato la freschezza e la precisione del regista, Mikel Rueda, presente in sala, desideroso di far arrivare al pubblico presente le sue intenzioni e le motivazioni che hanno portato alla realizzazione di questo magnifico prodotto cinematografico, degno di successo e di essere goduto in tante sale di quanti più paesi possibili.
Anche il due maggio è andato. A breve ci immergeremo nel programma del penultimo giorno del TGLFF.
Annunziato Gentiluomo
[Fonti delle immagini: premiosebastiane.com, filmtv.it, tglff.it, cineysefeliz.es, globedia.com, bilbaoarte.org, filmotecavasca.com]
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