Un mito si è fatto tradizione vivente nel teatro del Novecento: è la Commedia dell’Arte. È andato in scena al Teatro EuropAuditorium di BolognaFiere, dal 6 all’8 febbraio, Servo per due di Favino-Sassanelli, con gli attori del gruppo Danny Rose. Una miscela esplosiva di aerea poesia scenica, timida denuncia e farsa rivistaiola. Il coraggioso tentativo
Un mito si è fatto tradizione vivente nel teatro del Novecento: è la Commedia dell’Arte.
È andato in scena al Teatro EuropAuditorium di BolognaFiere, dal 6 all’8 febbraio, Servo per due di Favino-Sassanelli, con gli attori del gruppo Danny Rose. Una miscela esplosiva di aerea poesia scenica, timida denuncia e farsa rivistaiola. Il coraggioso tentativo di riportare nel teatro l’improvvisazione.
Pippo vaga per la nera Rimini degli anni ’30 in cerca di una soluzione ai propri problemi. Niente in tasca, incontrollabile il desiderio di mangiare, diventa servitore di Rocco, ambiguo personaggio giunto in città per concludere un affare con Bartoldo, padre della promessa sposa Clarice. La fame è tanta, però. Lo zanni pasticcione comincia, allora, a dispensare i suoi servigi a un secondo padrone, Ludovico. I due ignorano l’esistenza l’uno dell’altro, ma presto scoprono di avere molto in comune. Dal canto suo Pippo, servo ingordo e pasticcione, inizia presto a confondersi. E i guai non tardano ad arrivare…
C’è tutta la storia del teatro in Servo per Due. Ispirato al capovaloro goldoniano Arlecchino servitore di due padroni, scritto in forma di canovaccio nel 1745 per il comico Antonio Sacchi, dotatosi poi di un copione steso per intero – così come prevedeva la riforma teatrale del suo autore – e ripreso dal buon vecchio Strehler per la stagione inaugurale del Piccolo nel ’47, la pièce è ritraduzione e riadattamento. Discende infatti dall’allestimento del commediografo inglese Richard Bean, che tre anni fa per il National Theatre londinese ambienta la commedia di Goldoni a Brighton negli anni ’60, intitolandola One Man, Two Guvnors.
Tradotto e riadattato nella versione italiana da Pierfrancesco Favino, Paolo Sassanelli, Marit Nissen e Simonetta Solder, lo spettacolo svela il lungo training da cui sorge. Seminari di acrobatica, clown e maschera immergono i registi – Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli – nella tradizione del teatro fisico italiano. Lavorare sul corpo, sul ballo e sul canto quali parti indispensabili della performance. Solo dopo, il ritorno al testo. Un quotidiano allenamento fisico-gestuale i cui risultati non si possono non notare, e applaudire.
Un fiume in piena. La commedia è un analogico montaggio di tableaux vivants che, privi di autentica continuità in una pastiche volutamente schizofrenica, fanno tesoro della maestria attorica di Pippo-Favino, dei suoi perfetti tempi comici, della sua brillante drammaturgia non verbale. La recitazione fortemente espressiva e aggraziata ne fa un Pippo-Truffaldino-Arlecchino sulle punte in grado di attirare l’avido occhio del pubblico in un ludus contagioso. Un gioco di carte talmente nevrotico e ciclotimico da farlo rimanere spiazzato più e più volte. È il caso di Felice, simpatico spettatore che in uno dei lazzi comici offre all’entertainer romano – il cui ruolo piange la fame – del Nesquik. E come dimenticare il tragi-comico incidente di fine primo atto, allorchè la Sig. Valentini, gentile spettatrice complice dell’improvvisazione, è per errore innaffiata dall’estintore maneggiato da Ludovico (Pietro Ragusa) Insomma, le virtù ma anche i vizi della commedia all’improvviso, a ogni modo insufficienti intaccare una splendida performance collettiva. È lo stesso Favino infatti, eccellente attore ma prima ancora gentleman d’altri tempi, ad assumersi ogni responsabilità per l’accaduto, a fare pronte scuse a audience e spettatrice, ma soprattutto a portarla con sè in scena nel ballo finale, che omaggia il Quartetto Cetra con Baciami Piccina. Una tensione comico-drammatica esplosiva. Una risata a volte incontenibile. Uno spettacolo al cardiopalma.
Allestita in una cornice che ricrea l’atmosfera del palchetto del varietà anni ’30, la pièce ripropone con verve e grazia strepitose la maniera della commedia goldoniana, puntando decisamente sul gioco mimico del lazzo e un soave divertissement. Altrettanto deliziosa e stupefacente è la mini-orchestra live dei Musica da Ripostiglio. Il gruppo grossetano – Luca Pirozzi, Luca Giacomelli, Raffaele Toninelli, Emanuele Pellegrini – apre la rappresentazione quando ancora molti tra il pubblico, stretti in cappotti e pellicce, si avventurano nella sala alla ricerca della sedia con il proprio numerino sopra. Da qui in poi le loro note ci immergono musicalmente in delicate atmosfere anni ’30. Tra abiti d’epoca e virtuosistici assoli di corde e percussioni, la platea non ne ha mai abbastanza, batte le mani a ritmo di musica.
A poco più di vent’anni da Il ritorno di Scaramouche di Jean Baptiste Poquelin e Leòn de Berardin (1994), lo spettacolo bolognese in cui il mitico Leo volle risalire – indicandole già nel titolo, attraverso Scaramouche (al secolo, il napoletano Fiorilli) e Molière – alle fonti moderne dell’arte attorica, Pierfrancesco ricomincia da zero. Ritorna al muto, alla parola che sta per nascere. Cerca la base essenziale della relazione teatrale.
In breve, una difficile sfida e una bella vittoria per l’attore romano che, momentaneamente abbandonata l’interpretazione cinematografica, può diventare attore-autore e, perchè no, inserirsi nella plurisecolare genealogia del Grande Attore italiano: dai giullari al Ruzante, e da questi ai grandi comici dell’arte, fino a Totò e Eduardo.
Servo per due: dalla stand-up comedy beaniana la comédie nouvelle di Favino-Sassanelli. Uno spettacolo-capolavoro in cui il teatro continua a essere mezzo privilegiato per raccontare la vita.
Ma è chiaro, tutto diventa più sfumato adesso. Quella vita è scritta, è fiction, o forse no. La scena non è più verità ma finzione, o forse no.
Giuseppe Parasporo
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