Un film di Gianfranco Rosi. Documentario, durata 93 min. – Italia 2013 – Officine Ubu. L’ultimo film italiano in concorso e vincitore alla 70a edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è Sacro GRA, di Gianfranco Rosi. Un film che, annunciato come documentario, è in realtà molto di più. È un racconto. È il racconto sincero,
Un film di Gianfranco Rosi. Documentario, durata 93 min. – Italia 2013 – Officine Ubu.
L’ultimo film italiano in concorso e vincitore alla 70a edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è Sacro GRA, di Gianfranco Rosi. Un film che, annunciato come documentario, è in realtà molto di più.
È un racconto. È il racconto sincero, autentico e iperrealista delle vite che gravitano intorno all’invisibile GRA (acronimo di Grande Raccordo Anulare): un luogo-non-luogo, che di per sé non esiste, se non come luogo di passaggio. Le vite, poi, sono quelle che il registra ha incontrato durante il suo pellegrinaggio su quella strada: un pellegrinaggio durato tre anni. C’è allora l’infermiere single del 118, in servizio sul GRA, che trascorre la giornata a chattare e ad assistere la madre affetta da semenza senile. C’è un nobile piemontese decaduto che vive con la figlia laureanda; un pescatore d’anguille (unico tra gli attori a non aver seguito a Venezia il regista perché settembre è tempo di pesca); delle prostitute transessuali che, sedute nella roulotte ad aspettare il cliente, cantano Ogni Tanto di Gianna Nannini. Ma c’è, su tutti, un palmologo, un esperto botanico che combatte per la sopravvivenza delle palme e che forse incarna meglio di tutti lo spirito del film – o meglio – del suo regista, nel suo rendere più espliciti quei richiami, quelle metafore, che fanno del GRA un luogo sacro, misterioso, invisibile (lo stesso regista ha in più occasioni ricordato la fondamentale influenza sul suo lavoro de Le città invisibili, di Italo Calvino).
Osannato dalla critica del Festival, Sacro Gra è un film delicato, senza grandi pretese ma non per questo meno ambizioso. Un film che strizza l’occhio al cinema di Pasolini, pur rimanendo alla dovuta distanza di sicurezza. Pregio assoluto della pellicola diventano allora le indiscusse qualità dell’autore: le sue abilità cinematografiche di ritrattista, quella singolare capacità di offrire in ognuno dei casi un ritratto compiuto con un numero ristrettissimo di riprese – o meglio – di pennellate. Ne deriva una vera e propria galleria di ritratti, un’appassionante fenomenologia dell’umanità che – proprio come le palme del film – è in decomposizione.
Eppure, è una galleria che, per quanto appassionante, non è mai appassionata: ed è questo un altro ottimo risultato raggiunto da Rosi. Il regista, infatti, si propone intenzionalmente di mantenere non il sorriso complice, il bozzettismo, tipici di un certo filone del cinema italiano anni ’50. Preferisce piuttosto uno sguardo freddo, superiore e distante, chirurgico quasi. Visione che, quasi metafisica nel suo tentativo di non risucchiare lo spettatore nel vortice delle apparenze classiste, ha fatto parlare la critica addirittura di neo-neorealismo.
Insomma, Sacro Gra non è la storia, né tanto meno la geografia del Raccordo Anulare, che circonda Roma come un anello di Saturno: così si apre la pellicola citando la Roma di Fellini. È piuttosto un collage, un puzzle infinito di frammenti di umanità che potrebbero svolgersi anche altrove. Ma è anche un grande cerchio che, come il GRA, il regista si propone di aprire e trasformare in una retta senza inizio né fine, infinita. Rosi, allora, come il palmologo-cardiologo del suo film che ascolta dentro il cuore delle palme, è uno sciamano, un sensitivo. Come il palmologo, è un uditore che aspira a curare non solo la pianta, ma forse anche l’intera specie umana (cinematograficamente, almeno) dal suo punteruolo rosso, quell’insetto che al tempo stesso la divora e la colonizza e il cui rumore non è diverso da quello degli uomini al ristorante.
Prima del film di Rosi, il Grande Raccordo Anulare è sempre stato quell’immenso, circolare spazio di mezzo tra il punto di partenza e quello d’arrivo. Un girotondo infinito la cui lentezza, così realisticamente espressa nel film, diventa luogo di incontro, di raccolta di pezzi di vita che vanno e vengono, senza fermarsi mai.
Il risultato è, senza dubbio, un film che più che un documentario è un road movie, un’ esperienza realistica ma alternativa all’occhio comune. Un film poetico il cui merito, riconosciuto dall’assegnazione del Leone d’Oro, è stato quello di rompere la mappa con il mito del GRA, quella grande aureola che circonda l’anima e le anime della capitale. Perché il sacro (del titolo) – nelle parole dell’autore – è il mistero: quel mistero laico di una città invisibile, che è tale anche per i romani.
Giuseppe Parasporo
N.B. In corsivo le citazioni del regista dalla Conferenza Stampa del Festival. Venezia, 5 settembre 2013.
[Fonti delle immagini: zzkrs.blog.siol.net; cinema.studionews24.com; cameo.cineama.it]
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