Martedì 7 agosto, con più di mezz’ora di ritardo, al prestigiosto Parco Archeologico Scolacium di Borgia (CZ), abbiamo assistito a La traviata, appuntamento operistico della programmazione di Armonie d’Arte Festival, diretto da Chiara Giordano e giunto alla sua XVIII edizione. Abbiamo visto decine di versioni di questa celeberrima opera verdiana, conosciamo la partitura, abbiamo studiato
Martedì 7 agosto, con più di mezz’ora di ritardo, al prestigiosto Parco Archeologico Scolacium di Borgia (CZ), abbiamo assistito a La traviata, appuntamento operistico della programmazione di Armonie d’Arte Festival, diretto da Chiara Giordano e giunto alla sua XVIII edizione.
Abbiamo visto decine di versioni di questa celeberrima opera verdiana, conosciamo la partitura, abbiamo studiato il libretto e probabilmente ci possiamo permettere, più che in altri casi, di puntualizzare alcuni aspetti non proprio in punta di piedi, rispettando le professionalità in gioco. Per poter essere innovativi e per offrire un punto di vista originale bisogna essere all’altezza e non è stato questo il caso. Già l’anno scorso l’allestimento di Carmen aveva fatto acqua da troppe parti in una forzata ricerca di ibridazione che poco aveva funzionato. Per questo avevamo preferito non scrivere, ma questa volta, dato che errare human est perseverare autem diabolicum non possiamo esimerci.
L’altro ieri abbiamo assistito a una versione de La traviata veramente “deficiente”, priva di una chiara idea registica. L’allestimento non è riuscito a impressionare. Non ha stimolato riflessioni. Non ha conseguito la men che minima forma di provocazione. Non è stato originale. Non è stato fedele al libretto. Ancora ci domandiamo cosa si volesse veicolare senza trovare risposta se non quella di una chiara volontà di manifestare il proprio ego in modo smisurato. Organizzare o dirigere un grande evento oppure curare l’allestimento di un’importante mostra o un catalogo non equivale a firmare la regia di un’opera. Abbiamo visto passare in rassegna coreografie inutili firmate da Filippo Stabile che non aggiungevano nulla al dramma che si stava consumando in scena. Le parti che tradizionalmente prevedevano i momenti danzanti (il valzer del primo atto e l’ingresso delle zingarelle del secondo) sono stati caratterizzati da accenni di movimenti, nel secondo caso anche equivoci e disfunzionali, in mezzo a stole rosse piumate divise tra uomini e donne. L’ingresso in scena della controfigura di Violetta, che da fuori scena veniva menata in trionfo dai coristi e dai figuranti, svettando in alto, è stata l’unica operazione che riusciamo a salvare anche se il cambio con l’originale è stato un po’ farraginoso. Non ben calcolati gli spazi. Non ben curate le interazioni nelle pagine di insieme e in quelle corali. A un certo punto nella celeberrima risposta Amami, Alfredo le luci si sono magicamente spente. Non possiamo non chiederci il perché… Errore o improvvisazione? E poi nel terzo atto l’ingresso di tre donne in abito da sposa forse a rappresentare il sogno d’amore infranto della protagonista, ma perché tre e soprattutto perché quei movimenti schizoidi? Ci permettiamo di aggiungere una nota sulla scelta di introdurre ogni atto attraverso la ricostruzione/presentazione/interpretazione (ancora oggi neanche questo ci è chiaro) di Alberto Micelotta, la Voce recitante. Abbiamo trovato la sua proclamazione attoriale alla vecchia maniera stucchevole. I testi, a volte a nostro avviso, imprecisi e molto personali. E poi la conclusione basata sul fatto che tutti abbiamo una prostituta alla fine, riferendosi alla morte, ci ha decisamente preoccupati ancor più di vederlo nel primo atto vestito da donna con un abito da sera rosso come Violetta e come anche la signora Chiara Giordano. Abbiamo trovato quasi infantile questa casualità. In tale caos da operetta amatoriale, dove alla fine la rappresentazione del Carnevale è risultata anche un bel siparietto, anche la stessa idea di generare live le scenografie, grazie a Smoe, giovane street artista, su tre pannelli si trasformava in un ulteriore distrattore per la visione. Inoltre i tre pannelli, oltre tutto pure ben realizzati, non riuscivano a rendere la complessità delle scene. Almeno per il secondo atto dovevano essere due: il giardino della casa di Violetta e Alfredo e la festa a casa di Flora. E i costumi e gli arredi da Nino Galea, come le stesse scene di G. Loois, sono in linea con la pochezza generale.Alla fine in tutto questo disordine, grazie alla sua duttilità e al suo carisma, Maria Teresa Leva è riuscita a salvare lo spettacolo e oggi possiamo affermare che le quattro ore di viaggio sono valse solo per aver potuto godere della sua arte. Ha reso le tre Violette in modo magistrale. Il controllo preciso del magnifico strumento che possiede le ha permesso di muoversi nell’impervia partitura del suo personaggio in modo superbo. Abbiamo goduto di gravi, acuti e sovracuti resi alla perfezione. E poi il suo pathos tutto meridionale e la sua verve attoriale hanno riempito la scena praticamente vuota facendoci vivere l’evoluzione di Violetta Valery e i moti che Francesco Maria Piave ha scelto per lei.
La divina, mi conceda la Callas di prendere in prestito la sua etichetta, è stata lasciata praticamente sola. Le sue due spalle non sono state totalmente all’altezza del ruolo. In particolare il tenore spagnolo Ignacio Encinas, nei panni di Alfredo Germont, che sul comunicato stampa veniva presentato come apprezzatissimo senza il riferimento a quando. Sicuramente forse solo dieci anni or sono così era, in quanto è palese la sua disinvoltura scenica e la grande conoscenza del ruolo con cui debuttò a Lisbona, ma adesso, all’età di 65 anni, la voce in rarissimi casi si mantiene (penso alla Mariella Devia e alla Giovanna Casolla), e spesso non succede proprio con la tessitura tenorile che risulta essere una delle più delicate. Infatti nel primo atto tutto sommato ha funzionato, ma nel secondo e nel terzo piano piano è andato decadendo, mancando dell’energia che il personaggio, certo non più di trentenne, richiedeva.Su Stefano Meo possiamo dire che il suo è stato un Giorgio Germont spesso ingessato. La sua struttura fisica e il suo essere sul palco non erano sempre ben armonizzati con gli altri due protagonisti. Dotato di buona tecnica, timbro plumbeo e buon fraseggio, non è stato capace di mantenere la rotondità della sua voce nel registro più acuto dove pare forzasse troppo il suo strumento.
Molto buona la direzione musicale dell’esperto Leonardo Quadrini che, come una valido nocchiere, ha saputo valorizzare e guidare l’Orchestra in Residenza che ha pennellato, con precisione e cura, la partitura, riuscendo a trovare una buona sinergia tra buca e palco.
Un diesel il Coro Lirico Cilea diretto da Bruno Tirotta. All’inizio non sempre uniforme e coeso, ha raggiunto una buona orchestrazione dalla fine del primo atto, riuscendo a sostenere i protagonisti.
Rispetto ai comprimari, eccetto Francesco Domenico Doto (Giuseppe) e Daniela Leone (Annina), due belle vocalità e pertinenti scenicamente, gli altri – Angela Bonfitto (Flora Bervoix), Giuseppe Maiorano (Gastone, visconte de Letorières), Gianfranco Zuccarino (Barone Douphol), Giuseppe Montanaro (Marchese D’Obigny), Michele Bisceglie (Dottor Grenvil), Jacopo di Pasquale (Domestico di Flora) e Onofrio Torres (Commissionario) – non sono stati all’altezza del ruolo, probabilmente presi della vortice del caos di cui sopra.
Quindi uno spettacolo al cospetto delle maestose rovine della chiesa abbaziale normanna di Roccelletta di Borgia, di cui ricorderemo solo la location e l’interpretazione della strepitosa Maria Teresa Leva, la star della serata, apprezzata dal pubblico presente che l’ha salutata con copiosi applausi.
Annunziato Gentiluomo
Leave a Comment
Your email address will not be published. Required fields are marked with *