Torniamo dalla seconda recita del secondo appuntamento operistico del Regio Opera Festival con tanti interrogativi, in primis, inerenti al titolo giacché quella a cui abbiamo assistito ieri, 23 giugno, non è la Carmen di Georges Bizet. Può esserne una personalissima trasposizione. Può essere un’introduzione o un invito all’opera, ma non altro. Chiaramente il comunicato stampa la presentava onestamente, ma risulta,
Torniamo dalla seconda recita del secondo appuntamento operistico del Regio Opera Festival con tanti interrogativi, in primis, inerenti al titolo giacché quella a cui abbiamo assistito ieri, 23 giugno, non è la Carmen di Georges Bizet. Può esserne una personalissima trasposizione. Può essere un’introduzione o un invito all’opera, ma non altro. Chiaramente il comunicato stampa la presentava onestamente, ma risulta, ai nostri occhi comunque fuorviante, l’aver lasciato il titolo originale in tutta la cartellonistica. Non pochi sono rimasti interdetti e alcuni, prima della fine dell’unica interruzione prevista, hanno preferito andare via.
Fatto questo preambolo, focalizziamoci sulla serata. La location del Cortile di Palazzo Arsenale di Torino è sicuramente degna di questa forma d’arte e offre già di per sé un contesto significante. Come spesso accade nelle versioni all’aperto, bisogna considerare che la qualità del suono non è perfetta in quanto c’è maggiore dispersione e soprattutto per i cantanti risulta più complesso proiettare la voce e superare la bua. Detto questo, iniziamo dalla direzione di Sesto Quatrini che è stata regolare e partecipata, e ha consentito all’Orchestra del Regio di Torino di potersi esprimere al meglio. In particolare notevoli il comparto dei violini e il flauto solista. Il direttore si è mosso con disinvoltura fra la selezione delle pagine dell’opera non facendoci notare le mancanze e raggiungendo con facilità i climax espressivi richiesti. Buona nel complesso la prova del Coro, istruito dal Maestro Andrea Secchi, che ha dimostrato compattezza e precisione.
Sulle semplici, ma funzionali scene di Claudia Boasso (in particolare degni di nota i pannelli con il toreador e il toro per ricreare la piazza di Siviglia durante la festa finale), si imposta la regia di Paolo Vettori che abbiamo trovato confusionaria e discutibile. I fogli che cadono dall’alto come il drappo rosso finale scontatissimo. Le sigaraie che paiono prostitute con le classiche sigarette fini e lunghe degli anni Sessanta. L’uso caotico dei ventagli rossi. Lo svestirsi dei coristi sul palco – come in preda dei calori della menopausa o dell’andropausa – rimanendo, per quanto concerne gli uomini, con odierne polo mono-tinta. La Morte che viene scelta dallo stesso mazzo più e più volte senza l’opportuno rimischiare le carte. La non precisa organizzazione degli spazi e la non sempre curata relazione fra i personaggi… Tutti questi elementi non stimolano l’immersività e la partecipazione del pubblico. Si aggiunga che la citazione dell’abito per indicare Carmen e Escamillo è scimmiottata da altri allestimenti e non aggiunge nulla alla messinscena. Il ricorso finale ai cellulare… semplicemente imbarazzante. Non abbiamo sempre gradito i costumi di Laura Viglione, in particolare le t-shirts già citate, e l’abito a righe della protagonista che appiattisce ulteriormente il suo personaggio, deficiente rispetto alla verve della zingara. Anche le luci firmate da Lorenzo Maletto non spiccano: avrebbero potuto dare maggiore profondità alla scena e caratterizzare di più i personaggi.
Pure il ruolo di Georges Bizet, ben reso nel complesso da Yuri D’Agostino, non appare profilato a sufficienza: interagisce con gli interpreti, totalmente disinteressati a quanto esprime – forse solo una volta Carmen pare dargli confidenza – e si rivolge poco al pubblico a cui spesso si pone di lato. Avrebbe dovuto essere pure il trait d’union fra il palco e gli spettatori, ma non raggiunge tale obiettivo. Inoltre non si intuisce dove vogliano andare a parare i testi di Sebastian F. Schwarz che, se da una parte cercano di chiarire quanto avviene in scena, introducendo gli elementi mancanti dell’adattamento, dall’altra si perdono in manifestazioni di saccenza musicale spicciola e autoreferenziale, arrivando all’ultimo a toccare le questioni di genere in modo pleonastico e retorico. Un minimo di rispetto rispetto alla sofferenza di chi vive manifestazioni di soprusi o fenomeni di femminicidio, di cui Carmen è il primo grande esempio del mondo del melodramma. L’ironia in temi così spinosi e complessi può risultare controproducente.
Rispetto ai protagonisti il nostro plauso sicuro e completo va a Jean-François Borras che ha reso con fermezza e sicurezza la partitura di Don José e l’evoluzione del suo personaggio. Lo abbiamo apprezzato per l’eccellente fraseggio, la buona tecnica e il controllo dell’emissione vocale invidiabile. Raffinata ed emozionante la sua versione de La fleur que tu m’avais jetée. Valida la performance di Benedetta Torre che ha ben interpretato il ruolo di Micaëla. Dotata di un bel colore, una voce ben proiettata e una bella presenza scenica risolve molto bene il tutto, distinguendosi tanto nel duetto con Don José – Parle-moi de ma mère! – quanto nella sua aria Je dis que rien ne m’épouvante. Solo dignitosa la performance di Ketevan Kemoklidze: a parte qualche leggera imprecisione, nulla da segnalare sulla sua esecuzione anche se non che non è riuscita a rappresentare tanto scenicamente quanto vocalmente quello che per noi è il complesso personaggio di Carmen. Inoltre la sua Habanera è stata poco convincente e poco sinuosa. Veramente non in serata Zoltán Nagy incapace di rendere il personaggio di Escamillo. Vocalmente poco centrato e impreciso, non valido tecnicamente (il suono non pare sempre appoggiato), a volte sembra muoversi da ubriaco: la fierezza e il valore del suo personaggio non sono neppure vagamente abbozzati.
Non ci resta che aspettare Tosca…
Annunziato Gentiluomo
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