C’era anche Michele Marmo al TEDx di Torino, classe 1960, cresciuto a Biella, dove, frequentando l’oratorio salesiano, ha maturato la sua passione per l’animazione sociale e culturale. Sua una delle più intense esperienze di comunità di cui vi sia esempio nel nostro paese, all’insegna dell’attenzione per le giovani generazioni all’interno della Famiglia salesiana, da cui
C’era anche Michele Marmo al TEDx di Torino, classe 1960, cresciuto a Biella, dove, frequentando l’oratorio salesiano, ha maturato la sua passione per l’animazione sociale e culturale. Sua una delle più intense esperienze di comunità di cui vi sia esempio nel nostro paese, all’insegna dell’attenzione per le giovani generazioni all’interno della Famiglia salesiana, da cui è partito il progetto della cooperativa sociale Vedogiovane.
Michele ha offerto uno spaccato degli anni in cui è cresciuto, ha spiegato il significato simbolico dei ’60, molto chiaro per quelli della sua generazione, per gli altri lo ha raccontato lui. Anni di richiesta e di speranza di cambiamento, erano insieme momento di sviluppo, slancio, ma anche di tentativo di mantenimento di strutture sociali abbastanza rigide. In quegli anni comparivano sulla scena pubblica internazionale figure importanti come JFK, che raccontava la possibilità di una visione politica diversa. Si affermavano i movimenti per i diritti civili, con alterne e vicende, basta pensare a Martin Luther King, ma con la certezza che non si sarebbero fermati. Il Concilio Vaticano II raccontava che anche la Chiesa aveva intenzione di cambiare il proprio sguardo sulla realtà e di muoversi in una direzione diversa. Erano gli anni dei Beatles, (ma anche dei Rolling Stones, degli Animals… ndr) erano gli anni, ha tenuto a sottolineare, della grande Inter. Quindi anni di speranza, di aspirazione, di volontà di cambiamento. I giovani, i movimenti studenteschi, sia in Francia sia Italia, reclamavano il proprio spazio in questo processo e invitavano ad avere capacità di sogno e di creatività. Insomma, come sempre i giovani rappresentavano un’aspirazione della società, che a volte la società stessa non riesce neppure a comprendere, non ne ha coscienza. Quel clima era nutrito dall’animazione sociale culturale e ne era costituzione.
È nel 1977 che Michele partecipa al primo corso per animatori socioculturali, lo promuoveva l’Unione Industriali di Biella e lo gestiva l’editrice La Scuola di Brescia. In quell’aula c’erano giovani studenti, docenti, operai, c’erano anche gli anarchici del suo quartiere che cominciavano a costituire la cooperativa di consumo, insomma c’era tutto il mondo che spingeva per il cambiamento, mancavano solo gli Indiani metropolitani per chi se li ricorda.
In realtà quel movimento lo aiuta a capire che cosa fosse l’animazione, così comincia a studiarla: l’importanza del gruppo, la capacità di usare elementi espressivi che non fossero i soliti, valorizzare l’intelligenza emotiva, un appassionamento per il territorio e la comunità. Capisce quanto l’animazione fosse la strada per proporre esperienze in cui le persone potessero fare insieme qualcosa per produrre un cambiamento nella loro vita personale e in quella della realtà in cui abitavano. Nonostante in quegli anni la disillusione di un cambiamento che non arrivava portasse al terrorismo, agli anni di piombo, l’animazione continuò a prediligere uno sguardo su quel che c’era, non su quel che mancava, si proponeva come strumento per aiutare popolazioni, gruppi, territori a modificare la realtà, lavorando sulla liberazione delle risorse. Un ruolo fondamentale quello dell’animazione, quindi, che oggi, tuttavia, vive un momento di grande ambiguità nell’immaginario collettivo: sicuramente non è quella da villaggio turistico, che ha scippato all’animazione culturale l’anima ludica, non un intrattenimento infantilizzante, ma la capacità di prendersi gioco dei potenti con uno sberleffo. E non è neanche quella della Disney o della Pixar, pur condividendo con quella tradizione la capacità di narrare storie che permettano alle persone di immaginare un futuro migliore per se stesse e per gli altri. L’animazione era ed è una cosa seria, un investimento per tutta la vita: un pensiero potente che Michele Marmo mutua dalla profonda conoscenza con Don Aldo Ellena, salesiano atipico, che ha dato forma a questo fenomeno in Italia, ha formato molti, creando la rivista “Animazione Sociale“, formidabile strumento di riattivazione sociale, un indicatore di cambiamento. Questa è stata la chiave di volta: il cambiamento, la liberazione, l’affermazione della soggettività, tanto che possiamo dire, dopo 50 anni che questa parte ha vinto perché tutti noi asseriamo che il soggetto è importante, che è fondamentale l’autorealizzazione, che è dirimente non avere autorità che ci costringano, ma al contempo, se parliamo di sviluppo economico, di una dimensione della politica ci accorgiamo che questa libertà, questa sottolineatura eccessiva della libertà, ha lasciato l’uomo solo. E questo è un fallimento per l’animazione che ha sempre pensato che la liberazione andasse coniugata con il “noi”. Ci sono alcuni che sostengono che delle tre parole della rivoluzione francese, soltanto la Libertà sia stata sufficientemente sottolineata, dimenticandosi di Fraternità e Uguaglianza. Marmo ci suggerisce la necessità di un ’68 post soggettivistico in cui la parola Libertà sia coniugata con Legame e con Responsabilità. Solo così potrà funzionare l’innovazione, coniugandola con la capacità di riaffermare la Fraternità come criterio di cambiamento della realtà: è un progetto etico e consiste, dal suo punto di vista, nella necessità di ricostruire il tessuto sociale, una paziente ritessitura dei legami che si sono frantumati sul territorio; senza questo non riusciremo a riprogettare un futuro di convivenza civile. Alla luce di ciò, diventa fondamentale riprendere il dono come elemento caratterizzante delle nostre relazioni, di quel dono particolare che è il per-dono, altrimenti finiremo schiacciati dal risentimento e dalla rabbia. Contemporaneamente dovremo cercare e trovare luoghi in cui queste parole possano essere sperimentate, abbiamo bisogno di essere rialfabetizzati alle competenze relazionali, sociali, politiche. Da ultimo dobbiamo dotarci di uno sguardo che sappia vedere le esperienze che già, in maniera germinale, stanno sperimentando queste realtà, per prendersene cura, una cura particolare, quella che si tributa a tutte le cose fragili.
Non stiamo ancora facendo abbastanza, dobbiamo fare di più, ne vale la pena.
Elena Miglietti
[Fonte immagini: Elena Miglietti ph, vedogiovane.it; TedxTorino.com]
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