In concorso tra i lungometraggi e proiettato durante la terza giornata del Torino Gay & Lesbian Film Festival, “Wo willst du hin, Habibi?” (Where are you going, Habibi?), il film tedesco del regista Tor Iben, già al TGLFF nel 2009 (con Somebody Got Murdered) e nel 2014 (con Das Phallometer) è una bella storia che
In concorso tra i lungometraggi e proiettato durante la terza giornata del Torino Gay & Lesbian Film Festival, “Wo willst du hin, Habibi?” (Where are you going, Habibi?), il film tedesco del regista Tor Iben, già al TGLFF nel 2009 (con Somebody Got Murdered) e nel 2014 (con Das Phallometer) è una bella storia che si dipana tra amicizia, amore e rapporti familiari.
Il film è incentrato sulla figura di Ibrahim (Cem Alkan), detto Ibo, bravo ragazzo berlinese di origini turche appena laureato in architettura. La madre (Ilknur Boyraz) e il padre (Tuncay Gary), ancora molto vicini alle tradizioni e alla comunità araba, e la sorella (Rana Farahani), sono all’oscuro della vita sentimentale di Ibo, legato a un bel ragazzotto svededese in partenza per Stoccolma. La loro storia d’amore ha il merito di lasciare in eredità il fil rouge della narrazione: le kottbullar, tipiche polpette svedesi (quelle dell’Ikea, per intenderci). Il fidanzato parte per la Svezia e a Ibo non rimane altro che qualche chiamata su Skype e la ricetta delle polpette da sperimentare.
A sconvolgere realmente la vita di Ibo sarà il tedeschissimo Ali (Martin Walde), lottatore e ladruncolo a tempo perso, con un conto da saldare con la giustizia e rapporti logorati con tutta la famiglia. Ali è solo al mondo e Ibo sembra essere il suo angelo custode, presente in ogni momento di difficoltà. Il rapporto si rafforza dopo che Ali rimane vittima di un pestaggio e, con entrambe le braccia ingessate, Ibo ne diventa il suo prolungamento. La narrazione del film prosegue tra l’outing della sorella che mostra ai genitori un video con prove sull’omosessualità di Ibo, l’appoggio degli zii più progressisti che lo ospiteranno dopo essere stato cacciato di casa dal padre (diventato nel frattempo allevatore di canarini) e la rottura di ogni rapporto con Ali, ingestibile per un buono come Ibrahim, fino al lieto fine, nel nome delle kottbullar.
Il film di Tor Iben ha il pregio di raccontare le moltissime sfaccettature dell’integrazione, dell’inclusione e della discriminazione. La difficoltà che Ibo ha nel trovare lavoro nonostante un buon curriculum, sempre scartato fino a quando non decide di sostituire il nome arabo con uno tedesco (storia realmente accaduta come dichiarato dal regista presente in sala), viene trattata in maniera un po’ superficiale; il regista ha probabilmente preferito focalizzare l’attenzione su altre sfumature, come quella dell’accettazione familiare. Il film ha intriso in sé anche un messaggio di riscatto sociale: Ali, soprattutto a causa della deprivazione sentimentale, incappa troppo facilmente in comportamenti devianti. Ma l’amore è salvifico e la strada per la redenzione è più vicina di quanto si possa pensare. Il processo di affermazione di Ibo, come identità a sé stante, staccata dall’ala protettrice troppo tradizionale della casa natia, finisce per coinvolgere positivamente coloro che gli stanno accanto, dal papà fino ad Ali che avrà, inaspettatamente, il ruolo centrale per il lieto fine.
Per la buona riuscita del film, non è da trascurare l’eccellente supporto degli attori: Cem Alkan e Martin Walde sono perfetti per il ruolo dei protagonisti mentre tra i comprimari, nota di merito a Özay Fecht e Neil Malik Abdullah, bravissimi interpreti degli zii intellettuali e progressisti.
Mirko Ghiani
[Immagini da film-rezensionen.de e filmstarts.de]
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