Ogni volta che siamo a teatro, seguiamo quanto accade cercando, con attenzione, l’intenzione registica, e proviamo a individuarne la pregnanza simbolica che forse neanche il regista aveva pensato. Davanti però a La traviata di Alice Rohrwacher, in scena al Teatro Ponchielli di Cremona il 10 dicembre, siamo rimasti interdetti e anche un po’ imbarazzati. L’idea di
Ogni volta che siamo a teatro, seguiamo quanto accade cercando, con attenzione, l’intenzione registica, e proviamo a individuarne la pregnanza simbolica che forse neanche il regista aveva pensato. Davanti però a La traviata di Alice Rohrwacher, in scena al Teatro Ponchielli di Cremona il 10 dicembre, siamo rimasti interdetti e anche un po’ imbarazzati. L’idea di estremizzare il voyerismo e di riflesso la critica al pressapochismo e alla sciatteria della società piccolo borghese, attanagliata nel suo perbenismo e facilmente scandalizzabile davanti alla diversità, ci sta, ma tutto il resto manca di fondamenti sostanziali e, come un castello di carta, è caduto davanti alle prime riflessioni. Sembra che la regista sia rimasta perversamente intrappolata a questa interessante idea che non è stata in grado di sviluppare. L’effetto di confusione e caos in scena, di non chiarezza, e la mancanza di introspezione sono ciò che arrivano ai presenti, turbati per come sia state rovinate la pagine più belle delle celeberrima opera verdiana.
Ma scendendo nei particolari. Dall’ouverture tutto è immediatamente chiaro. Violetta prende un fiore, oggetto leitmotiv dell’allestimento, e inizia a strappare un petalo dopo l’altro in uno spazio creato ad hoc a destra del palco. Non è soddisfatta e quindi lo getta a terra: il ciack la obbliga a ripetere mentre una telecamera aerea le si avvicina per un primo piano. Finalmente è andata, il film è concluso e la festa di Flora si trasforma nei classici festeggiamenti per la fine di un’importante produzione cinematografica. Tutti cercano la protagonista per complimentarsi e brindare per lei. E la scena del celeberrimo valzer si trasforma in una discutibile “corsa” ai saluti, in cui a un certo punto i bicchieri, sapientemente riempiti da Violetta, diventano luminosi, fluorescenti, e, al buio, iniziano ad ondeggiare e ruotare (una vera baracconata), e nel mentre parte un video della protagonista, a testimonianza del lavoro svolto. Eccetto Violetta e Alfredo, tutti gli altri hanno abiti scuri, identificabili come tecnici di produzione, con il conseguente appiattimento delle singolarità sceniche. Il set cinematografico in scena inoltre limita i movimenti rendendo la scena ingessata e statica. La scenografia del secondo atto e quella del terzo atto sono altresì discutibili come lo stesso passaggio dalla seconda festa di Flora all’appartamento parigini della Violetta in fin di vita. Lo scritto di Violetta è portato ad Alfredo da quattro scalmanati come se fosse una burla. Pure la scena delle zingarelle è appiattita e volgarizzata. Nessun movimento sinuoso, ma solo provocazione fine a se stessa: semplicemente un’orgia, con uomini depravati mal truccati, a petto nudo, e le donne, lascive e dai facili costumi, in body neri. Il loro orientamento sessuale è poco chiaro, tutti flirtano con tutti. Ad un certo punto gli uomini e le donne si dividono e si contendono Alfredo che viene spinto e trattenuto prima degli uni e poi dalle altre, e viene toccato avidamente. A poco serve la tovaglia rossa che viene utilizzata a coprire le pratiche sessuali, come una tenda, a simulare il toreador e a incoronare Alfredo che si è liberato finalmente di Violetta, a cui era legato da fili, rappresentati dagli accorsi con della lana intorno alle mani. E in fine la protagonista si spoglia almeno due volte in scena: sono gli abiti a indicare il suo ruolo, da cui vuole liberarsi, ma a cui è legata profondamente.
Scenicamente tutto ruota attorno a Violetta. È lei che abbraccia Alfredo, lo deride, tutto da lei è mosso, mentre il suo amato è un debole, fragile, indeciso, infantile, forse succube del padre, e quindi ai cliché borghesi. Nel momento in cui salda i conti con Violetta, le butta addosso del denaro tante volte. Lo raccoglie da terra o lo rigetta sulla donna con disprezzo, a dimostrazione di un temperamento collerico adolescenziale, e non da uomo realizzato. Nonostante ciò al centro rimane sempre Violetta.
Tale modus operandi e l’appiattimento attoriale mettono in ombra i comprimari, di cui non riusciamo neppure a distinguere le voci tanta la loro marginalità, a eccezion fatta per Flora che nel secondo atto appare come alter ego di Violetta, sia nella gestione della situazione prima e durante il suo arrivo col barone Douphol, sia quando manda i paparazzi a mortificare l’attrice sua amica ormai priva della verve che le era propria, elevando se stessa come possibile nuova prima donna.
Nella regia di Alice Rohrwacher manca anche la cura delle relazioni sceniche. Alfredo parla con Violetta, all’inizio del secondo atto, intenta a piantare i fiori e incurante di quanto l’amato le sta comunicando. All’uscita di Alfredo i due protagonisti si incontrano e quindi perché Violetta non chiede a lui stesso dove sta andando così velocemente, domanda che poi rivolge ad Annina. Lo stesso Giorgio totalmente cinico non esprime compassione alcuna nei confronti di una donna malata e straziata che obbliga a sacrificare (È grave il sacrifizio) l’unico aspetto della sua vita che funzioni, l’amore per suo figlio. Non si abbracciano come prevedrebbe il libretto (Qual figlia m’abbracciate… forte così sarò). E poi nel terzo atto il dottore che non si avvicina alla protagonista nonostante sia protratta verso di lui, con un mano che chiede conforto e richiama palesemente la sua attenzione. E anche nel finale, in cui poco sono chiari i movimenti raffazzonati e isterici richiesti alla protagonista, Violetta è sola nonostante i presenti mentre lo specchio si inclina, permettendo la vista intera del volume del corpo che ormai è trasceso.
Abbiamo apprezzato il video di una bambina con in mano una margherita a cui strappa con dolcezza i petali, bambina che nel finale entrerà in scena e giacerà accanto a Violetta, a rappresentare la purezza della sua anima ormai trascesa e persa nell’Eterno. Inoltre nel secondo atto nel giardino appena accennato, sono presenti delle radici sospese e una fossa riempite dalle stesse con il solito specchio riflettente. Radici che indicano forse lo sradicamento di Violetta dalla sua vecchia vita, il liberarsi dalle sue abitudini e il lasciarsi, fiduciosa, finalmente all’amore di Alfredo e alla tranquillità matrimoniale, oppure un ritorno alle origini, alla purezza. E se fosse un elemento privo di tale valenza simbolica?
La gestione delle luci, firmata da Roberto Tarasco, è altalenante e i passaggi sono troppo violenti: passiamo nel secondo atto, ad esempio, da un giardino verde a un terra desertica che ci lascia straniti e che non riusciamo a identificarne la motivazione. Anche le scene di Federica Paolini lasciano a desiderare nonostante siano funzionali all’idea registica, come anche i movimenti coreografici di Valentina Marini inqualificabili. Molto belli invece i costumi di Violetta e Flora curati da Vera Pierantoni Giua e creati in esclusiva da MIU MIU.
Anche la direzione musicale non aiuta l’allestimento, di per sé deficiente. Francesco Lanzillotta appare monocorde, lento, poco incisivo e l’Orchestra I POMERIGGI MUSICALI di riflesso pare trascinarsi. Buone le performance dei solisti, in particolare degli archi.
Il coro Coro OPERALOMBARDIA, che è, invece, compatto, preciso e capace di mettersi in gioco in situazioni discutibili, ben sostiene i solisti.
Vocalmente buona nel complesso la prova dei tre protagonisti. In particolare dal secondo atto, Mihaela Marcu ci offre una versione convincente di Violetta. Intensa, drammatica, sempre ben centrata. Dotata di una vocalità cristallina, un suadente timbro, una voce ben proiettata, una buona tecnica, si muove agilmente nella partitura complessa del suo ruolo producendo filati ben eseguiti.
Antonio Gandia era in serata. La sua voce luminosa e il suo buon fraseggio gli permettono di ben rendere il ruolo di Alfredo Germont. Non sempre, però, riesce a incastrarsi nelle pagine di assieme con la donna che ama.
Eccellente la prova di Marcello Rosiello che colora con precisione il ruolo di Giorgio Germont. La voce voluminosa e rotonda, il timbro bronzeo, la tecnica sicura e il perfetto fraseggio gli consentono di conquistarsi il pubblico crotonese, affascinato dal suo stile e dalla capacità di commuovere.
Fra i comprimari si distinguono Daniela Innamorati che impersona con convinzione il personaggio di Flora Bervoix grazie alle sue ottime qualità vocali brunite e una buona tecnica; e Alessandra Contaldo che rende con cura e precisione il personaggio di Annina). Completano il cast Giuseppe Distefano(Gastone), Davide Fersini (Il Barone Douphol), Matteo Mollica (Il marchese D’Obigny) e Shi Zong (Il Dottor Grenvil).
Annunziato Gentiluomo
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