L’inaugurazione della stagione lirica del Carlo Felice ha avuto una cornice festosa e spettacolare nella piazza De Ferrari sulla quale il Teatro genovese si affaccia. Organizzata dalla Regione, la festa ha richiamato un folto pubblico e ha creato un’atmosfera certamente diversa e più partecipata rispetto alle più recenti aperture stagionali. Dal 15 al 29 dicembre al
L’inaugurazione della stagione lirica del Carlo Felice ha avuto una cornice festosa e spettacolare nella piazza De Ferrari sulla quale il Teatro genovese si affaccia. Organizzata dalla Regione, la festa ha richiamato un folto pubblico e ha creato un’atmosfera certamente diversa e più partecipata rispetto alle più recenti aperture stagionali.
Dal 15 al 29 dicembre al Teatro Carlo Felice, viene messa in scena La traviata, melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave, un capolavoro ispirato a La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio, diretto da Massimo Zanetti e Alvise Casellati.
I primi due atti si sviluppano in un clima di forte tensione emotiva. Nel cast fra gli interpreti emerge il soprano siciliano Desirée Rancatore, nel ruolo di Violetta Valéry, protagonista assoluta della scena con la sua voce matura, decisa, avvolgente. Le tante anime della personalità di Violetta così come sono state pensate da Verdi – spensierata cocotte nel primo atto, compagna fedele di Alfredo nel secondo, capro espiatorio del perbenismo borghese nel terzo – esigono tre trattamenti vocali differenti, che richiedono un’interprete di grande elasticità: Desirée Rancatore onora perfettamente questo personaggio e la si apprezza particolarmente per la sua bravura a modulare la voce in un’alternanza di registri differenti orchestrati con grande sapienza.
Il Preludio a sipario chiuso conferisce un significato emotivo nuovo, teso a rappresentare l’umanità della protagonista, prima ancora che entri in scena, trasgredendo i canoni operistici.
Nel libretto i personaggi si esprimono più in prosa che in poesia, ma nonostante ciò Verdi riesce a estrarre le sue melodie più cantabili. Denso di sentimento e di emozione il lungo dialogo in cui Giorgio Germont, padre di Alfredo Germont, costringe Violetta a rinunciare all’amore per il figlio in nome dell’onore della famiglia. La musica qui mette in risalto le emozioni che si nascondono dietro le parole e proprio qui risiede la straordinaria modernità di Verdi che si riconosce nella sua grande capacità di rendere una situazione prosaica fonte di poesia al pari di un mito.
Giuseppe Filianoti appare come un Alfredo generoso anche se non perfetto: durante l’opera il tenore ha avuto un abbassamento di voce ed è stato sostituito per il terzo atto da William Davenport. Il baritono Vladimir Stoyanov interpreta con nobiltà espressiva la figura del vecchio Germont, dando vita nel secondo atto a un intenso duetto-scontro con la protagonista. Marta Leung interpreta Flora Bervoix e Daniela Mazzucato veste i panni di Annina, con il suo spiccato talento interpretativo. Completano il cast Didier Pieri (Gastone, Visconte di Létorières), Paolo Orecchia (Il barone Douphol), un interessante Stefano Marchisio (Il marchese d’Obigny), Manrico Signorini (Dottor Grenvil).
Il regista Giorgio Gallione propone un allestimento in chiave contemporanea, scegliendo una scenografia insolita, ardita, provocatoria per enfatizzare il dramma, creare pathos e produrre effetti scenici quasi surreali. Le scene e i costumi sono firmati da Guido Fiorato, le luci sono curate da Luciano Novelli e le coreografie da Giovanni Di Cicco.
Gallione così giustifica le sue scelte artistiche: È proprio con Fiorato che abbiamo pensato di ambientare l’opera in un luogo stilizzato, antirealistico, simbolico, sterile, dove dominano vetro e ghiaccio, virato in un bianco e nero “ferito”, solo talvolta, dal rosso del sangue e della vita che, comunque, pulsa. Forse Violetta muore già nel preludio e l’opera è tutto un allucinato flash back visionario e spettrale. Siamo, anche nei momenti di gioia, imprigionati in una sorta di perenne moritat dove, grazie alla musica di Verdi, il dolore è trasfigurato in modo sublime, ma dove la speranza è assente e la vita rischia di essere nient’altro che una tragica carnevalata.
La scelta scenografica di Gallione tuffa immediatamente lo spettatore nella tragedia, dove i rari momenti di serenità di Violetta vengono vissuti come nostalgico ricordo. La scenografia volutamente scarna di Fiorato sottolinea ulteriormente quest’atmosfera, con un albero che domina lo spazio e nel suo trasformarsi di atto in atto – luminoso all’inizio, rigoglioso di frutti nel secondo atto, seccato e abbattuto nel terzo – accompagna il progressivo spegnimento della protagonista.
Violetta Valery non è una figura nobile, bensì una donna di facili costumi. Il coro incarna e simboleggia quella stessa società a cui apparteneva il pubblico che il 6 marzo del 1853 andò al Teatro La Fenice di Venezia per assistere alla prima. Non si tratta di un’invenzione letteraria, ma di una storia ispirata a fatti realmente accaduti nella Parigi di una decina d’anni prima, così come si leggevano nel romanzo La signora delle camelie di Alexandre Dumas figlio.
Un’opera in bianco e nero, chiaroscurata, calata fra luci ed ombre, a riprodurre una visione della vita pessimistica, intrisa di fatalismo e senza speranza.
Interessante lo sdoppiamento nel terzo atto della figura di Violetta, dove mentre il corpo della fanciulla giace disteso a terra la sua anima danza, fortemente ancorata alla vita. Molto discutibile e piuttosto volgare, invece, il coro delle Zingarelle.
La direzione affidata a Massimo Zanetti non sostiene con vigore la rappresentazione, poco vibrante sul piano emotivo. Interessante l’interpretazione vocale del Coro del Teatro Carlo Felice curato dal M° Franco Sebastiani.
Odette Alloati
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