Nato a Malé Svatoňovice il 9 gennaio 1890, Karel Čapek (1890 – 1938, Praga) è oggi uno degli scrittori cèchi più conosciuti e tradotti al mondo. Narratore, drammaturgo, scrittore e giornalista, è noto in ambito teatrale per Rossum’s Universal Robots, dramma utopico, di un’avanguardia più apparente che reale, intimamente attraversato da componenti individualistiche, idilliche a volte,
Nato a Malé Svatoňovice il 9 gennaio 1890, Karel Čapek (1890 – 1938, Praga) è oggi uno degli scrittori cèchi più conosciuti e tradotti al mondo. Narratore, drammaturgo, scrittore e giornalista, è noto in ambito teatrale per Rossum’s Universal Robots, dramma utopico, di un’avanguardia più apparente che reale, intimamente attraversato da componenti individualistiche, idilliche a volte, non a caso contrapposte ai concitati ritmi della moderna civiltà meccanica.
L’autore ceco, le cui profondità psicologiche più volte hanno rammentato al pensiero critico novecentesco la dostoevskijana contemplazione dell’uomo e dell’abisso, si dedicò, come molto Novecento letterario del resto (da D’Annunzio e Pirandello a Joyce e Svevo), alla composizione di short stories. Ed è proprio un suo racconto breve a solleticare, a poco meno di un secolo di distanza, le nostre antenne culturali. Ci riferiamo a una revisione-reinterpretazione della morte di Archimede di Siracusa (287-212 a.C.), grande matematico e fisico antico, noto ai più per il principio della statica dei fluidi, il cosiddetto principio di Archimede.
Secondo le fonti, durante la conquista romana di Siracusa, un soldato si avvicinò allo scienziato impegnato ad analizzare delle figure geometriche appena tracciate sulla sabbia. All’arrivo del soldato, fu lui a lanciare il monito non scompigliare i miei cerchi, spingendo il soldato a ucciderlo, nonostante l’ordine del generale Marcello di salvaguardarne l’incolumità.
Diversa la versione offertaci dal praghese. Se prima era un «soldatino romano», un predone ubriaco, a entrare nella casa dello scienziato siracusano per saccheggiarlo, è ora il colto capitano Lucius. Questi «che sapeva bene con chi aveva l’onore di parlare» («non un distratto professore, […] ma un autentico soldato», le cui macchine da guerra erano state fondamentali nella difesa dall’assedio romano), inizia ad avvicinarsi ad Archimede, con una proposta che non potrà rifiutare: servire Roma, aiutarla a dominare il mondo.
Un grande impero? – bofonchiò Archimede. Se disegno un cerchio piccolo o uno grande, è sempre e solo un cerchio. Le frontiere ci sono sempre; non potrete mai non avere delle frontiere, Lucius. Pensi che un cerchio grande sia più perfetto di uno piccolo? Pensi di essere un miglior geometra se disegni un cerchio più grande?
È un rifiuto. Archimede ha cose ben più importanti a cui pensare.
Insomma, un illuminante racconto tutto da leggere, a tratti capace di evocare le severe riflessioni tacitiane contro l’imperialismo romano Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant («Laddove fanno il deserto, lo chiamano pace», Agricola, Publio Cornelio Tacito).
Un interessante brano di storiografia antica, l’infinita sophia di un mondo che non smette mai di cercarci.
Non arrabbiarti, ma ora ho qualcosa di più importante da fare. Sai, qualcosa di più durevole. Qualcosa che davvero rimarrà. (La morte di Archimede, Karel Čapek, cit.)
Giuseppe Parasporo
[Fonti delle immagini: dida.orizzontescuola.it; nebo-tak-nejak.blog.cz]
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