Attese più che rispettate per La Monaca di Monza, al Piccolo Teatro del Baraccano, Bologna. In esclusiva nazionale per (S)Blocco5, per la prima volta a Bologna, grande successo di pubblico per la tripla (7-8-9 novembre) riproposizione della pièce di Giovanni Testori, diretta e interpretata con il consueto coraggio che caratterizza la produzione teatrale targata (S)Blocco.
Attese più che rispettate per La Monaca di Monza, al Piccolo Teatro del Baraccano, Bologna. In esclusiva nazionale per (S)Blocco5, per la prima volta a Bologna, grande successo di pubblico per la tripla (7-8-9 novembre) riproposizione della pièce di Giovanni Testori, diretta e interpretata con il consueto coraggio che caratterizza la produzione teatrale targata (S)Blocco.
L’associazione, nata nel 2013 per la valorizzazione e la diffusione delle arti e della cultura, è da tempo impegnata in una crociata drammatica: si batte per «un teatro complice e audace, che provochi la passione e stuzzichi la perversione; un’arte nemica e valorosa, che punzecchi la coscienza e istighi l’intelligenza; una cultura coinvolgente e degna, che stimoli le idee e favorisca la condivisione». Come lasciarsi sfuggire allora l’opera dello scrittore milanese, il suo ossimorico amore per Manzoni e i suoi Promessi. Una religione cristiana vissuta con forte tensione tragica, fatta di dubbi, bestemmie, pentimenti.
Lo sfondo storico, in breve, è il seguente:
«1591: Marianna de Leyva, figlia del conte Martino e di Virginia Maria Marino, divenne monaca assumendo il nome di Suor Virginia Maria. Vent’anni dopo, durante il processo che la coinvolse per concorso in omicidio della conversa Caterina Cassina da Meda, dichiarò di essere stata chiusa in monastero contro la sua volontà e di essere stata iniziata agli ordini sacri in modo non conforme alle regole. Accusato con lei il conte Gian Paolo Osio, suo amante da dieci anni. Nel 1610 Suor Virginia fu murata viva in una cella due metri per tre. Ne uscì tredici anni dopo»
In una notturna e claustrofobica scena iniziale, è la monaca stessa a richiamare a uno a uno in scena gli spettri di chi le è vissuto accanto. Sono tutti peccatori, corruttori, falsi o corrotti. È il processo a una femminilità negata: la negazione della carne schiacciata dal peso del maligno. L’ipocrisia di una religione fatta di regole, divieti da rispettare, pena la prigione monastica: una prigione lunga tutta una vita, che Testori riuscì a far gridare da una pagina scritta.
A più di quarant’anni di distanza, la “trista monaca” ritorna a vivere nei panni di Yvonne Capece, nei suoi impressionanti affreschi di parole rosso sangue, fatte di violente blasfemie e bestemmie contro quel Cristo che, suo ipotetico sposo, diventa supremo reggitor dei mali, abbandonandola ad una convento che sa di morte. Accanto a lei magistrale la rivisitazione del conte Gian Paolo Osio, interpretato da un Walter Cerrotta che nelle vesti dell’Egidio manzoniano diventa fosca e tormentata figura di amante in una storia d’amore che «non s’ha da fare», profeta del male ii un mondo che sfida il suo Dio. Sì, perchè il dio di Testori non parla, è lontano. È la tragica e inutile denuncia dell’assurdo, di un Godot che non arriva e mai lo farà.
È poi un tema che, da Dante al Novecento, ha segnato la storia della nostra letteratura: il topos della “fanciulla malmonacata”. È la tragica speranza di salvarsi dalla sepoltura in un chiostro, ormai unica dimensione possibile per donne senza dote, vedove, deformi o sole; e spesso motivo di slancio eretico. È l’urlo della carne, il disperato anelito verso una forma di salvezza, sospesa tra la rinuncia alla vita e una prometeica disobbedienza alla norma. È il paradosso della “via della vita” che diventa “via della morte, Eros che si confonde a Thanatos: se «verbum panis factum est», ora è la carne morta che torna a farsi verbo; e lo fa per gridare il suo dolore.
Apprezzabile l’interpretazione dei due attori, sicuramente in grado di coinvolgere sensorialmente, agendo sui nervi dello spettatore. Fedele ad una linea registica di tipo tradizionale, Il teatro poetico e crudele cui pensava Testori rivive nell’utilizzo violento dei mezzi scenici (dalla parola alle luci, dalle azioni alle musiche).
Un teatro che grida, che urla, e lo fa consapevole di non essere ascoltato. È l’urlo di rabbia contro la nascita e la morte, la denuncia del peccato, la bestemmia che diventa sfida al creatore. La potenza della parola insomma, in senso scenico e teatrale, ma soprattutto metateatrale, esistenziale.
Giuseppe Parasporo
[Fonti delle immagini: www.sblocco5.it; (copertina) www.archetipoac.it; Giuseppe Parasporo Ph]
[Fonti del video: www.youtube.com]
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