Il trovatore di Verdi, del duo Jacopo Brusa (direttore) e Roberto Catalano (regista) dopo il debutto a Cremona, inizia la tournée a Pavia, venerdì 26 novembre alle ore 20.30 e domenica 28 alle 15.30, presso il Teatro Fraschini. Il cast è formato da Matteo Falcier (Manrico), Leon Kim (Il Conte di Luna), Marigona Qerkezi (Leonora),
Il trovatore di Verdi, del duo Jacopo Brusa (direttore) e Roberto Catalano (regista) dopo il debutto a Cremona, inizia la tournée a Pavia, venerdì 26 novembre alle ore 20.30 e domenica 28 alle 15.30, presso il Teatro Fraschini. Il cast è formato da Matteo Falcier (Manrico), Leon Kim (Il Conte di Luna), Marigona Qerkezi (Leonora), Alessandra Volpe (Azucena), Alexey Birkus (Ferrando), Sabrina Sanza (Ines), Roberto Covatta (Ruiz), Riccardo Dernini (Vecchio Zingaro), Davide Capitanio (Messo). Le scene sono di Emanuele Sinisi, i costumi di Ilaria Ariemme, le luci di Fiammetta Baldiserri.
Il Trovatore è la seconda opera della “trilogia popolare” di Giuseppe Verdi: è stato creato nel 1853 tra Rigoletto e La traviata. Fu da subito un grande successo.
Il libretto fu tratto dal dramma El Trobador di Antonio García Gutiérrez, e commissionato a Salvatore Cammarano, con l’intervento di Leone Emanuele Bardare.
Il trovatore è un dramma in quattro atti e otto quadri, ambientato in Spagna al principio del secolo XV. La vicenda si articola intorno a Leonora, dama di compagnia della principessa d’Aragona la quale è innamorata di Manrico, il trovatore, che pure la ama. Il conte di Luna anche è innamorato di Leonora che però lo respinge: la trama verte quindi intorno al conflitto tra i due uomini che solo alla fine, quando Manrico viene fatto decapitare dal conte e Leonora si è suicidata, si scopriranno essere fratelli. Una gitana infatti, figlia di una donna fatta ardere sul rogo come strega dall’allora conte di Luna (il padre dell’attuale conte, ormai morto), per vendetta aveva rapito uno dei due figli del conte, Manrico, volendolo gettare sul rogo della madre. Colta da un mancamento, però, aveva piuttosto arso vivo il proprio di figlio che era lì con lei, salvando Manrico che aveva cresciuto come suo.
I biglietti vanno da 56 a 24 euro con riduzioni per i giovani under 30 e gli over 65.
Riportiamo di seguito per immergerci pienamente nell’allestimento le note musicali e quelle di regia.
Storie di Amore, Gelosia e Vendetta a cura di Jacopo Brusa
Il celebre critico musicale e studioso delle Opere di Verdi Abramo Basevi scrisse nel 1859, a proposito del Trovatore: “ognuno vede che le inverosimiglianze ed anche le assurdità non mancano in questo argomento, ma per compenso vi è quanto basta a scuotere la fibra dello spettatore”. In questa definizione, in effetti, si racchiude il “segreto” del successo del Trovatore che, fin dalla prima rappresentazione del 1853, fu sancito dal pubblico. Il Trovatore, nonostante le ambiguità della trama, ammalia l’ascoltatore grazie alle suggestioni melodiche, ritmiche e coloristiche che si susseguono quasi freneticamente e che, paradossalmente, sono rese possibili dalla struttura del libretto stesso. Prendiamo ad esempio i primi cinque numeri musicali dell’Opera, quelli che hanno il compito di renderci, o meno, interessati all’ascolto. Ebbene, in quattro di essi vi sono dei “racconti” che, indipendentemente dalle vicende narrate, stimolano in noi il fascino arcaico del “rito del racconto”, quel rito che evoca Ferrando nell’Introduzione e, nel momento in cui il coro (ma anche il pubblico!) gli chiede di “narrare la vera storia di Garzia”, lui risponde: “La dirò: venite intorno a me!”, invitandoli/ci tutti idealmente attorno al fuoco per ascoltarlo. É Verdi stesso che ci “invita”, sfruttando magistralmente le possibilità espressive legate al testo della narrazione che, a sua volta, ci rimanda all’affascinante esotismo del mondo gitano di Azucena. La zingara, peraltro, è il personaggio veramente innovativo dell’Opera per il quale, fin dall’inizio, Verdi prevede un ruolo talmente centrale che vorrebbe che l’intero melodramma fosse intitolato a lei! Azucena si muove sempre tra disperazione, malinconia e sete di vendetta, tra momenti di lucidità e di follia, condizioni emotive, queste, che esaltano la scrittura verdiana. “Quando Azucena non ragiona, ragiona meglio il Dramma”, scriverà. Come per la Lady Macbeth di sei anni prima, la “pazzia” e, ancora di più in Azucena, lo stato ipnotico in cui spesso si trova, portano Verdi a sperimentare un uso della voce che volge molto spesso al “declamato” e al “parlato”. Di contro, Leonora, è l’espressione del Belcanto, incarnata dal legato dei Cantabili, dalle cadenze virtuosistiche, dalle agilità e – perché no? – dalle variazioni nelle Cabalette. La dinamicità dell’azione drammatica, infine, è garantita dal tradizionale duello “guerriero e amoroso” tra il Baritono e il Tenore. Verdi, per il Conte e Manrico, si esalta utilizzando le “armi” della Solita Forma. Le vicende narrate nel Trovatore, quindi, sono una vera summa di quelle passioni che Verdi cerca avidamente in quegli anni (Amore, Gelosia e Vendetta) e che gli permettono di immettere nella “tradizione” quegli elementi innovativi che contribuiranno a renderlo immortale.
Note di regia a cura di Roberto Catalano
Siamo in un luogo dove qualcosa è successo. Un luogo dove il fuoco ha distrutto ogni cosa. La fiamma ha attraversato la bellezza che un tempo vi dimorava e ne ha ucciso ogni possibile testimonianza.
Resta l’ossame di quel mondo e l’immagine del vecchio progetto, ciò che doveva essere quel mondo prima del disastro, lo scheletro su cui costruire il nostro luogo da abitare.
Questo progetto è sotto gli occhi dello spettatore da subito, quasi fosse un promemoria dello sforzo compiuto prima della sua realizzazione. Come se facessimo coincidere il progetto di un palazzo bellissimo con la fotografia della sua distruzione. È un ricordo, è lo strazio della memoria che continua a bruciarci i pensieri, è la compresenza di ciò che era e di ciò che non c’è più.
Così questa storia comincia, in un mondo compromesso, dove il trauma di Azucena, amplificato sulla scena, ha investito la vita di chi vive in una stanza completamente sommersa dai resti di un mondo perduto.
Una libreria che non ha smesso di bruciare ci rimanda all’ impossibilità di verificare che le cose qui narrate siano davvero accadute.
Gli uomini che abitano questo posto vivono nella completa solitudine, errando sulla terra deserta e nera, intrappolati nella storia che non li lascia andare.
È la storia di un dolore doppio e terribile. La storia di una donna che ha visto morire la madre e che per errore ha arso vivo il proprio figlio. Il fuoco è l’assassino, l’immagine che si è impressa negli occhi al punto da sostituirsi al mondo tutto intero.
Azucena, così come tutti gli abitanti di questa storia, si muove sopra i resti che quel fuoco ha lasciato dietro di sè, e il suo incedere passo dopo passo nel mare nero che le ricorda tutto, le brucia ancora la pelle.
Le sue mani, come un aratro, solcheranno la terra ricoperta di cenere scoprendo la luce che vi si nasconde.
Perché bisognerà scavare per disseppellire il mondo che era e trovare una “pace bianca” che possa tornare a far respirare tutti.
È la rimozione di un trauma. La pulizia definitiva di un’anima fortemente compromessa dal dolore. La ricerca della luce che ognuno di noi possiede e che è seppellita sotto il peso delle colpe.
I resti bruciati che vengono rimossi non sono mai abbastanza, e il bianco che giace sul fondo lo si può solo intravedere, Mucchi di sporco vengono prelevati a tempo dagli zingari, con le donne che incitano gli uomini a fare un buon lavoro. In quel mondo bisognerà abitarci per sempre e, per sempre, si sarà condannati forse ad operare questa rimozione. Come ci fosse, sulla pelle di ciascuno, l’impronta di un peccato da dover espiare.
Ognuno col suo peso. Ognuno con la propria colpa.
Azucena rivive il trauma di quella doppia morte di continuo. La sua realtà, filtrata da occhi ormai morti, è quella che ciascuno di noi vede.
Ciò che le è accaduto è talmente potente che ha involontariamente toccato tutti.
Solo Leonora potrà liberarli.
Soltanto la sua morte potrà davvero rendere possibile questo amore che altrimenti, soffocherebbe sotto la cenere come tutto questo mondo che agonizza.
Sarà così che deciderà di offrirsi all’uomo che da tempo brama di possederla.
Al cospetto del Conte di Luna, infatti, offrirà se stessa in cambio della libertà, in cambio di una breccia nel muro, di uno spiraglio di luce che consenta a Manrico di fuggire via da questa “tomba di vivi”.
Il suo sacrificio, questo amore che in questo mondo non trova spazio, potrebbe liberarli tutti.
Nessuno però ha tempo di vedere che la via è schiusa; che, finalmente, tutto il mondo è in luce.
Al cospetto della definitiva libertà, si resterà immobili e inermi. Ciascuno impegnato con la propria rabbia, con la grande stanchezza che questo vivere comporta.
Perché i personaggi di questa storia non compiono alcuna evoluzione. Sono immobili. Si fanno voce di un passato perduto e di un futuro che forse non vedranno mai. Il racconto è un graduale svelamento del loro vissuto, di un antefatto a noi celato, di battaglie combattute lontano dalla scena, di dolori talmente forti da essere indicibili.
Ciascuno con la propria coltre di cenere addosso e questo tentativo, ostinato e perpetuo, di rimuovere lo sporco per disseppellire la purezza perduta.
Come ciascuno di noi, nel rapporto coi dolori da cui cerchiamo di liberarci, con le colpe da cui vogliamo ripulirci.
Alla fine di questa storia, Manrico viene mandato a morire e gli occhi di Azucena si posano su un altro omicidio.
“Egli era tuo fratello”, urla la zingara al Conte che finalmente entra in possesso della verità.
Quell’uomo è ora un omicida.
Il trauma col quale deve convivere adesso, è soltanto il suo.
Azucena vendicando la madre spegne in parte il suo dolore.
Leonora e Manrico, liberandosi nella morte, sono gli unici esseri umani di questa storia ad essersi salvati.
Il conte, pur sopravvivendo, è destinato alla peggiore delle condanne: quella delle anime morte condannate alla vita.
Redazione di ArtInMovimento
[Ph Zovadelli]
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