Ormai manca pochissimo per la prima delle due repliche di Rigoletto a Locri (RC) per la regia di Mario De Carlo. Il 6 e l’8 agosto alle 21.00 la Corte del Palazzo di Città del Comune locrese ospiterà la celeberrima verdiana. Sul podio si alterneranno il M. Federico Crisanaz, nella prima, e il M. David
Ormai manca pochissimo per la prima delle due repliche di Rigoletto a Locri (RC) per la regia di Mario De Carlo. Il 6 e l’8 agosto alle 21.00 la Corte del Palazzo di Città del Comune locrese ospiterà la celeberrima verdiana. Sul podio si alterneranno il M. Federico Crisanaz, nella prima, e il M. David Crescenzi, nella seconda.
Nel cast spicca il baritono Massimiliano Fichera, all’alba dei suoi vent’anni di carriera.
In questa sede approfondiamo le specificità della regia di De Carlo, proprio dalle sue parole.
Giuseppe Verdi era affascinato dai personaggi dalla doppia personalità. Rigoletto, Azucena, Violetta, le figure cardine della cosiddetta Trilogia popolare verdiana, sono creature tormentate, dal percorso psicologico bipolare, sospese tra grandi vette e grandi abissi. Verdi amava profondamente queste sue creazioni. Per questa sua inclinazione, il Maestro amava con passione il teatro di Victor Hugo, in cui le figure principali sono personaggi con forti contrasti di luci e ombre. Non dimentichiamo che dai lavori di Hugo provengono anche la “Lucrezia Borgia” donizettiana e la “Gioconda” di Ponchielli, con i loro sublimi slanci e le loro cupe nefandezze, spiega il regista.
Concentrandosi sul “Rigoletto”, il regista reggino da anni orma a Milano, chiarisce: Dal dramma “Le Roi s’amuse” di Victor Hugo Verdi ha preso ispirazione per il suo “Rigoletto”. Presentata in Francia nel 1832, la pièce teatrale del grande letterato francese era stata blindata dalla censura austriaca. Nella sua opera, in modo coraggioso e rivoluzionario, Hugo ritraeva senza pietà né addolcimenti le dissolutezze della corte francese, ponendo al centro il libertinaggio di Francesco I, re di Francia. Verdi, acceso patriota, fu evidentemente soggiogato da una trama che, metaforicamente, rappresentava le ingiustizie e le prevaricazioni del potere. Ma forse ancor più straordinariamente colpito il Maestro di Busseto fu dalla figura del buffone di corte, il gobbo Triboulet, tanto da attribuire a lui il ruolo di protagonista, sottraendolo alla testa coronata.
La propensione di Verdi per l’ambiguità dei personaggi e le dinamiche a tinte forti è testimoniata dalle lettere che sono rimaste e che possiamo leggere tuttora. Dalla lettera del 1850, al suo librettista Francesco Maria Piave: “Oh, Le roi s’amuse è il più gran soggetto che ho trovato finora, e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Tribolet è creazione degna di Shakespeare!; e, dunque, metti sottosopra Venezia e fai che la Censura permetta questo soggetto…”. La sua lettera alle autorità di Venezia, per scongiurare gli scempi della censura, ha tratti di abbagliante modernità e spregiudicatezza artistica: “Io trovo bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente defforme e ridicolo, e, internamente, appassionato e pieno d’amore”.
Rispetto alla propria personale interpretazione dell’opera verdiano, De Carlo afferma: Io ho cercato di approfondire questo aspetto, cioè la duplicità dei personaggi, che mi sembra il più interessante in assoluto, perché fa da traino ad altre valenze e connotati.
Spesso si assiste alla figura di Rigoletto resa troppo “nobile” fin dall’inizio dell’opera, quando è un buffone di corte alla festa del Duca, perdendo così un “coté” fondamentale del gobbo e semplificandone la complessità. Troppo spesso si dimentica che l’animo di Rigoletto è nero, che lui sa essere molto crudele nei confronti dei cortigiani, con i suoi scherzi feroci e volgari; senza il lato cattivo del buffone deforme non si potrebbe comprendere l’odio e il desiderio di vendetta che i cortigiani dimostrano nei suoi confronti. La trasformazione dell’uomo, però, è quasi improvvisa: basta che lui si avvicini alla casa dove vive la figlia per dimostrare quanta umanità ferita si nasconda dietro la sua maschera tragicomica. Ancora spietato e crudele si dimostrerà quando prenderà la decisione di sopprimere il Duca, in modo freddo e calcolato, senza nessuna esitazione o pentimento. E ancora la sua anima tornerà a piangere, di fronte alla tragedia dell’assurda morte dell’unica figlia, uccisa proprio dalla sua sete di vendetta.
Il tema del “doppio”, così centrale e presente nella storia, mi ha suggerito di trovare un’analoga connotazione per il Duca di Mantova, quasi che l’ambivalenza e il contrasto fra luci e ombre che caratterizzano la figura del protagonista si spandono anche su quella del Duca. Ciò costituisce dunque l’elemento di novità di questa regia. Ho visto tanti Duchi che assomigliano piuttosto a giovanotti imbelli e senza spina dorsale, che sono lì sul palcoscenico solo per cantare “Questa o quella…” e “La donna è mobile…”, senza altro senso o spessore drammaturgico. Il mio Duca, invece, è un personaggio molto più interessante, pieno di slancio ma anche di ombre, di vitalità ma anche di chiusure in se stesso. Il mio modello non è il tenore in braghettoni che è lì solo per cantare due arie, un duetto e un quartetto. Tra i regnanti storici di riferimento, mi sono ispirato non a Francesco I di Francia, noto per la sua spavalderia e la sua vita gaudente, ma piuttosto a Rodolfo II d’Asburgo, l’Imperatore del Sacro Romano Impero che viveva nell’incubo delle congiure e degli intrighi di palazzo. Per tale motivo aveva trasferito la sede del trono da Vienna a Praga. Nel suo immenso castello si era riservato un suo intimo rifugio nascosto, una piccola stanza privata in cui collezionava oggetti strani e introvabili, alcuni preziosamente veri, altri spudoratamente falsi: la cosiddetta Wunderkammer, ossia Stanza delle Meraviglie. Si era circondato di alchimisti, astrologi e una serie di altri strani personaggi. Tra questi, Rodolfo aveva chiamato a Praga, quale pittore di corte, Giuseppe Arcimboldo, il pittore Milanese del ‘500 famoso per le sue eccentriche creazioni fitozoomorfe.
Rispetto all’ambientazione storica dell’opera, De Carlo ci dice che “profuma” di Rinascimento, il momento della storia culturale italiana in cui l’interesse principale si focalizza sull’uomo e sulla visione laica del mondo, dopo i secoli del Medio Evo in cui aveva predominato l’elemento divino e religioso. E, se pensiamo al Rinascimento, pensiamo subito, in campo figurativo, ai dipinti dei grandi Maestri italiani che oggi possiamo ammirare al Museo degli Uffizi a Firenze e nei più grandi musei del mondo.
Rodolfo II d’Asburgo amava straordinariamente l’arte di Arcimboldo, proprio per la sua stranezza e la sua bizzarra fantasia. Nel libretto dell’opera c’è un momento, nel finale del secondo atto, in cui il Conte di Monterone, mentre viene condotto in carcere, si rivolge a un ritratto del Duca, maledicendolo, lo stesso ritratto a cui Rigoletto, appena dopo, rivolgerà la sua invettiva di vendetta tremenda vendetta (“di punirti già l’ora s’appressa”). Fra le opere di Arcimboldo che ci sono pervenute, la più arcinota e, forse, rappresentativa è proprio il ritratto di Rodolfo II in sembianze di Vertumno, il dio romano che proteggeva la terra con i suoi frutti e il mutamento delle stagioni. Mi è sembrato dunque naturale e perfettamente coerente trasformare il ritratto del Duca nel famoso dipinto! Oltre al carattere ombroso del mio Duca di Mantova simile a quello di Rodolfo II, oltre alla passione di Rodolfo per l’arte di Arcimboldo in generale, oltre al celebre ritratto (e fino a questo punto è storia) penso che il metodo con cui è realizzato il dipinto, cioè un “trompe-l’oeil” creato da un “patchwork” di frutta e ortaggi, si adatti perfettamente alla natura duplice e distorta dei personaggi di quest’opera, oltre che alla deformità fisica di Rigoletto.
Dalla presentazione del regista De Carlo, emerge con forza un altro elemento peculiare di questa messinscena, ovvero l’uso eloquente e metaforico dei colori. La scelta della gamma fondamentale (il bianco, il rosso e, soprattutto, il nero) costituisce già di per sé un linguaggio. I personaggi, oltre che con il loro acting, si manifestano attraverso la simbologia legata al colore.
Se, dunque, il candore virginale di Gilda è reso con il bianco, secondo una consolidata tradizione, ancor più interessante è l’attribuzione dello stesso identico colore e foggia del costume alla cameriera Giovanna (che siamo abituati a vedere vestita di scuro), a incarnare l’ambiguità del personaggio: ufficialmente è “doppio” di Gilda, nella misura in cui il suo ruolo è quello della nutrice che dovrebbe dedicarsi a preservare l’integrità fisica e morale della ragazza, in realtà si rivela allo spettatore quale campionessa del “doppio-gioco”. Perfino essa, dunque, pur nelle esigue proporzioni del personaggio, partecipa della natura bifronte che caratterizza tutti i protagonisti di quest’opera.
Il rosso, colore tradizionalmente attribuito alla sfera delle passioni, si lega dunque sia all’amore ostentato e volgare delle cortigiane alla festa del Duca, sia a quello mercenario di Maddalena, sia a quello puro e incondizionato di Gilda, tanto incendiario da spingerla fino all’estremo sacrificio di se stessa. Rossa è Maddalena, rossa di capelli e rossa di abito, la puttana-santa, la prostituta di strada che, da sempre avvezza all’amore prezzolato, si innamora adesso del giovane sconosciuto che “somiglia a un Apollo” e, per salvarlo da morte certa, determina il cambiamento del corso degli eventi. Rossi sono i costumi discinti delle cortigiane, che ridono sguaiatamente e sciupano un fascio di rose rosse usandolo per sedurre i maschi, coinvolgendo nel loro gioco anche un compiaciuto Rigoletto. Quest’ultimo, però, proprio nel momento stesso in cui partecipa al girotondo delle cortigiane – perfettamente integrato nell’ambiente cinico e perverso della corte – custodisce nel profondo del suo animo il pensiero costante della figlia: accetta e raccoglie le rose rosse delle cortigiane, ma le conserva per donarle a sua figlia quando, come ogni sera, riuscirà a togliersi di dosso i panni del buffone per correre a visitarla. E proprio il rosso di quelle rose, così cariche di sensualità nel primo quadro, è qui usato per rendere palese come l’amore si accende nel cuore di Gilda. Stringendo al seno quelle rose rosse, che fiammeggiano contro il suo candido abito, la fanciulla canterà il suo amore per il bel Duca, che le si è appena presentato come il povero studente Gualtier Maldè, affidando al rosso di quei fiori il compito di tracciare un percorso che la conduce verso il letto, quel letto che nei suoi sogni rappresenta il talamo nuziale e invece da lì a poco diventerà il palcoscenico della vergogna.
Il nero, con il suo bagaglio emozionale di sotterranee perdizioni e di insondabili baratri, domina nei momenti salienti e ammanta di sé personaggi che in altre messe in scena sono stati sempre rappresentati in pieno sole. La Contessa di Ceprano, spesso declassata al ruolo di bambolona inerte, è qui una “dark lady” che tiene in scacco il Duca, è l’arbitra dei suoi sensi e la padrona dei suoi più inconfessabili desideri. Lui è completamente soggiogato, forse proprio per il fatto che lei è l’unica donna che gli resista: come un bambino viziato che potrebbe avere tutto ciò che desidera, smania unicamente per ciò che non riesce ad avere. Un bambino vestito di nero anche lui, con l’anima nera come quella del suo giullare.
È il nero che unisce il Duca e la Contessa. È il nero che li stringe in un patto scellerato: ciò che vediamo nel loro breve incontro, lì al proscenio, è solo la punta dell’iceberg di un rapporto fatto di lussuria e trasgressione, che si consuma da sempre oltre le nere quinte.
Il nero conferisce loro una statura da tragedia greca, staccando e isolando il loro incontro dalla massa della corte banalmente festante e proiettandone le sagome come ombre lugubri, vivificate solo da un brivido freddo e perverso. Il Duca finirà ai piedi della Contessa, lui che è abituato ad avere il mondo ai propri piedi, compiendo ancora una volta quel rito di ribaltamento che si compie ogniqualvolta mettiamo in scena “Rigoletto”, la sua musica sublime, la sua perfetta macchina drammaturgica e il suo inquietante lato oscuro.
Non mancano certo gli elementi che rendano appetibile, originale e assolutamente interessante la versione del Rigoletto di Mario De Carlo. Si evince una lettura storica attenta, una conoscenza approfondita della partitura verdiana e dello stesso compositore e una precisa analisi psicologica dei personaggi… aspetti che sicuramente renderanno questo Rigoletto assolutamente da vivere.
Annunziato Gentiluomo
[Fonti delle immagini: parafrasando.it (Vertumno Rodolfo II di Arcimboldo]
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