Ricco il programma del Festival Verdi 2016, dall’1 al 30 ottobre, con spettacoli, incontri, giornate di studio, allestiti presso il Teatro Regio di Parma e il Teatro Giuseppe Verdi di Busseto, cui si affianca il Teatro Farnese per tutto il prossimo triennio. Spettacolare fra gli eventi la rappresentazione del Don Carlo, dramma lirico in quattro
Ricco il programma del Festival Verdi 2016, dall’1 al 30 ottobre, con spettacoli, incontri, giornate di studio, allestiti presso il Teatro Regio di Parma e il Teatro Giuseppe Verdi di Busseto, cui si affianca il Teatro Farnese per tutto il prossimo triennio.
Spettacolare fra gli eventi la rappresentazione del Don Carlo, dramma lirico in quattro atti, tratto dall’omonimo dramma schilleriano in cinque atti del 1787, su libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, dalla tragedia Don Karlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller e dal dramma Philippe II, roi d’Espagne di Eugène Cormon. La traduzione italiana dell’opera è stata curata da Achille De Lauzières e Angelo Zanardini.
L’artista è figlio del suo tempo; ma guai a lui se è anche suo discepolo o peggio ancora il suo favorito, sottolineava Friedrich Schiller, poeta e drammaturgo tedesco a cui Verdi si rifece per le sue composizioni. Dalle tappe giovanili di Giovanna d’Arco e I Masnadieri per giungere alla maturità con Don Carlo e concludersi con Il trovatore, Verdi si ispirò alle opere del grande poeta, grazie alla mediazione culturale di Andrea Maffei che ne tradusse i testi integrali in italiano.
Nel 1865 a Verdi fu proposto di scrivere per l’Opéra di Paris, in occasione dell’Esposizione Universale del 1867. L’impresario dell’Opéra, Emile Perrin, suggerì il Don Carlos di Schiller. Verdi compose l’opera nei primi nove mesi del 1866 e il debutto avvenne l’11 marzo 1867.
Verdi cercò di differenziarsi dalla prolissità drammaturgica della grande opera classica per proporre un dramma nuovo, dai registri e dalle varietà formali fra loro contrastanti, ricco di dettagli, sapiente nella sua orchestrazione, ardito nell’imponente scenografia dagli effetti prospettici e chiaroscurali stupefacenti, dai costumi curatissimi, ma soprattutto dalla grande capacità di centrare il suo interesse sul dramma e sulla psicologia dei personaggi più che sulla vicenda narrata.
Un’opera che all’epoca fece scalpore e non venne compresa, ma fu apprezzata nel Novecento, quando la critica seppe finalmente riconoscere in essa la corposità dei contenuti, la drammaticità dei conflitti e l’analisi della psiche, il gusto per un’opera aperta e innovativa, che trova nel pubblico spettatori ma anche interlocutori, grazie al grande pathos e coinvolgimento emotivo che gli attori trasmettono, non solo sul palco.
Anche questo allestimento firmato da Cesare Lievi e da Daniel Oren, è stato accolto con calore dal pubblico, nonostante l’ultima recita abbia messo a dura prova tutto il cast per il malore di Vladimir Stoyanov, sostituito in corsa da Gocha Abuladze, e per l’indisposizione dello stesso José Bros che alla fine ha scelto di proseguire.
Tutti eccezionali gli interpreti di questa edizione: il basso Michele Pertusi (Filippo II), il citato tenore José Bros (Don Carlo), i suddetti baritoni VladimirStoyanov (Rodrigo) e Gocha Abuladze, il basso Ievgen Orlov (Il grande inquisitore), il basso Simon Lim (frate), il soprano Serena Farnocchia (Elisabetta di Valois), il mezzosoprano Marianne Cornetti (La principessa Eboli), il soprano Lavinia Bini (Tebaldo, paggio di Elisabetta), il tenore Gregory Bonfatti (Conte di Lerma/Un Araldo reale), Marina Bucciarelli (Voce dal cielo) e Daniele Cusari, Andrea Goglio, Carlo Andrea Masciadri, Matteo Mazzoli, Alfredo Stefanelli e Alessandro Vandin (Deputati fiamminghi). Buoni gli ingressi, le emissioni di voce, belle le voci e tutti all’altezza da un punto di vista squisitamente interpretativo.
È doveroso però evidenziare la vocalità luminosa e l’agilità tecnica di José Bros; la verve drammatica e l’eleganza intimistica di Michele Pertusi; la solennità vocale e la grazia nei virtuosismi e negli acuti di Marianne Cornetti; l’intensità e la buona tecnica di Serena Farnocchia; la profondità di Ievgen Orlov e Simon Lim; la drammaticità e la robustezza di Gocha Abuladze; la morbidezza e l’agilità di Lavinia Bini; e la chiarezza e la pienezza di Marina Bucciarelli.
Compatto il Coro del Teatro Regio di Parma che, ben istruito dal Maestro Martino Faggiani, ha saputo grandemente onorare il suo ruolo e sostenere i solisti.
Di alto livello l’Orchestra del Teatro Regio di Parma, sapientemente guidata dal Maestro concertatore e direttore Daniel Oren, che ha interpretato con passione e cuore, utilizzando tutto il suo corpo, la complessa partitura verdiana, ben sottolineando tutti i colori previsti dal compositore.
Curata nel dettaglio, quasi maniacale in perfezione, la regia di Cesare Lievi, che ha saputo gestire gli spazi e i volumi sia nei momenti di insieme, sia negli eventuali assoli, utilizzando e valorizzando l’imponente scenografia, ricca di simbolismi, di Maurizio Balò. La ricorsività di alcune scelte, l’uso delle diagonali e della triangolazione, e il suo lavoro sui personaggi rappresentano gli elementi della sua firma. Inoltre ha saputo sapientemente esprimere il dramma esistenziale di ciascuno e descrivere il giogo a cui tutti erano, in qualche modo, sottoposti. Meravigliosi i costumi firmati dallo stesso Balò e ben orchestrate le luci gestite da Andrea Borelli, due dettagli tecnici che hanno aggiunto spessore drammatico alla resa dell’opera.
Veramente un bell’allestimento, capace di onorare il grande compositore di Busseto.
Odette Alloati e Annunziato Gentiluomo
(Le foto sono di Roberto Ricci)
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