Venezia, 07/09/2014. Rifiuto, amnesia, ecologia. Tre parole, quattro film che, ultimi in concorso ad essere proiettati sui grandi schermi della Mostra, rappresentano l’adeguata conclusione di una competizione che al rifiuto (inteso come ribellione, vedi Martone e il suo Leopardi), al ricordo (spesso documentaristico, come in “The Look of Silence”) e alla natura (benigna o maligna che
Venezia, 07/09/2014. Rifiuto, amnesia, ecologia. Tre parole, quattro film che, ultimi in concorso ad essere proiettati sui grandi schermi della Mostra, rappresentano l’adeguata conclusione di una competizione che al rifiuto (inteso come ribellione, vedi Martone e il suo Leopardi), al ricordo (spesso documentaristico, come in “The Look of Silence”) e alla natura (benigna o maligna che sia) fa riferimento, e non poco.
Quattro allora sono gli ultimi film in concorso. Si fa sul serio, adesso. Non si scherza più. Ecco così che la via anarchica che si spalancava al “giovane favoloso” diviene categorica. Si fa rifiuto sistematico di ogni conformismo, desiderio di sferzare a suon di martello le immaginose follie delle magnifiche sorti e progressive, che tanta propaganda novecentesca porta avanti. Ed è appunto questo rifiuto l’atto di nascita del pensiero di PierPaolo Pasolini, alla cui figura il regista statunitense A. Ferrara a deciso di dedicare il proprio film, dal titolo “Pasolini” per l’appunto, con protagonista il buon vecchio William Dafoe che nel ruolo del Nostro si assume il gravoso compito di illuminare, attraverso una sapiente alternanza di dati biografici e drammatizzazione di scene di film o romanzi, i suoi ultimi istanti, dall’ultima “infernale” intervista a “La Stampa” (vi dichiarava: “è come uno che scende all’inferno”) all’episodio dell’assassinio, ancora oggi non del tutto chiaro.
Rifiuti poi – seppur diversi – sono anche quello messo in scena dal neozelandese A. Niccol per il suo “Good Kill”, il cui protagonista (Ethan Hawke),un pilota di droni impegnato nella campagna statunitense in Afghanistan per la lotta contro terrorismo e fanatismo islamico, decide di disertare, rigettando la logica del potere con un gesto finale teatrale, quasi catartico ma inutile, soprattutto dal punto di vista morale. Così come è un rifiuto, seppur inconscio, quello dell’anziana signora protagonista di “Red Amnesia” di Wang Xiao-shuai: un rifiuto un po’ come quello del suo Paese, della Cina, che prova a fare i contri con un passato difficile da dimenticare, la Rivoluzione Culturale.Diverso è, invece, lo spirito dell’ultima pellicola in concorso, “The Postman’s White Nights”, diretto dal russo Andrey Konchalovskiy: emozionante, accorato racconto, tra fiaba e documentario, che, elegante nel suo complementare interesse per la sobrietà del reale e la tensione poetica e lirica dell’ambiente, illumina con umorismo la vita dell’uomo più umile di un villaggio russo, un postino, che, simbolo del piccolo mondo antico, è destinato a scomparire inghiottito dal monstrum della modernità. Dotato di una straordinaria fotografia, capace di inquadrature mozzafiato, non è un caso abbia vinto il Leone d’argento per la miglior regia. Sì, perché l’ultimo giorno è di solito quello delle premiazioni, delle grandi celebrazioni in Sala Grande; e anche quest’anno è stato così.Fabbrica di premi, il Festival ne dispensa molti, tra collaterali e principali. In relazione ai primi spicca sicuramente la grande celebrazione tenutasi due giorni fa nelle sale dell’Excelsior, volta all’attribuzione – sembrerebbe una contraddizione – dei tre più importanti premi di secondo piano. Ecco dunque il Leoncino d’Oro Agiscuola per il Cinema, assegnato da una giuria di giovani cinefili provenienti dalle scuole di tutta Italia all’americano “Birdman”, di A. Inarritu; la Segnalazione cinema for UNICEF, riservata dagli stessi giudici al film dell’italiano Saverio Costanzo, “Hungry Hearts”; nonché il Premio Schermi di qualità, in memoria del recentemente scomparso Carlo Mazzacurati, gigante buono, vinto da un altro italiano, Francesco Munzi, per “Anime Nere”. Dalla confusione dei riconoscimenti collaterali, però, che tra gli altri premiano soprattutto Loin des Hommes di D. Oelhoffen e G. Salvatores per il suo intenso cinemontaggio “Italy in a day”, si isolano quelli più importanti. Il Leone d’Oro per il miglior film non è statunitense come si era pensato (per “Birdman” o” The Look of S ilence”, cui va il Gran Premio della Giuria), ma svedese: ad aggiudicarselo è il film di Roy Andersson, “A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence”, dimostrando come all’orientamento realistico, forse neo-neorealistico di pellicole come quella vincitrice del massimo premio lo scorso anno (“Sacro GRA”, di G. Rosi), o quella attualmente in concorso “Ghesseha” di R. Bani-Etemad (cui spetta comunque il Premio per la miglior sceneggiatura), sia prevalso quello assurdista, visionario, altamente poetico, che da sempre ispira il cinema Italiano, e Venezia in particolar modo.Nessuna discussione invece per la Coppa Volpi, dedicata ai migliori attori. Superata l’altissima concorrenza di Elio Germano per “il giovane favoloso”, vince la Coppa Volpi migliore attore Adam Driver, per la sua straordinaria interpretazione in “Hungry Hearts” al fianco di una stupenda, inquietante Alba Rohrwacher, a sua volta vincitrice della Coppa Volpi migliore attrice.
Come sempre, è finita una Mostra dalle mille sorprese, positive o negative. Sì, perché nulla è scontato a Venezia. Non lo è Elio Germano che sbarca al molo dell’hotel Excelsior con il pugno chiuso. Non lo è la Sala Grande bloccata dall’interno dagli artificieri per due ore, a causa di un doppio allarme bomba. Non lo è il futuro vincitore del Leone che sfila in camicia sul red carpet, accompagnato dai suoi due attori protagonisti (H. Andersson, N. Vestblom) in maglietta e pantaloncini. Niente è normale. Non può esserlo.
Ebbene l’arte, il Festival, la vita sembrano – e forse sono davvero – assurde. Maschere di carnevale, denti da vampiro animano la scena così come la nostra esistenza; e altrettanto assurdo, stupefacente è il fatto che sia un piccione il primo ad accorgersene, a “rifletterci” su. E così, allo stesso tempo meditazione filosofica e scherzo beffardo, i 39 piani sequenza surreali e visionari di Andersson incarnano la realtà stessa dell’arte, della Mostra, stretta com’è tra un disperato bisogno di intrattenimento e l’assoluta incapacità di goderne.
Alla fine il sogno di Venezia finisce, e Lei si svela per quello che è: universo mosso dalla contraddizione, dalla convenzione o dal presunto interesse. Beninteso, non per questo meno attraente, se si considera come l’assurdo nasca dal divario che si instaura tra il richiamo ragionevole dell’uomo e il silenzio irragionevole del mondo. Piuttosto si tratta di una reductio ad absurdum negativa, ovvero del riconoscimento di una connaturata assurdità della vita come delle cose.
Con Andersson allora la Mostra, che l’anno precedente si era chiusa nel ricordo di Rossellini, Visconti e il Neorealismo, è il trait d’union ideale tra Don Chisciotte e Sancho Panza. Ritrova Pirandello, rilegge Beckett, riammira Duchamp.
Assurdo come condizione oggettiva del passaggio da realismo a cinema onirico e visionario? Beh, il cinema contemporaneo conosce tanti presunti nuovi-Rossellini(Rosi, Munzi); è però ancora in cerca del presunto nuovo-Fellini.
È forse questo ciò che oggi manca a Venezia, ciò che non ha più. Le manca Fellini. Le manca il suo Godot.
Giuseppe Parasporo
[Fonte immagini: Giuseppe Parasporo ph]
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