La mia vita professionale è caratterizzata da diversi anni dall’approfondimento dei temi del “cambiamento” e dall’evoluzione che il mondo dell’impresa, e quello economico in senso lato, sta avendo in termini di responsabilità sociale. Finiti gli anni in cui investire in “progetti responsabili” aveva lo scopo di un “green washing” della propria attività e del proprio
La mia vita professionale è caratterizzata da diversi anni dall’approfondimento dei temi del “cambiamento” e dall’evoluzione che il mondo dell’impresa, e quello economico in senso lato, sta avendo in termini di responsabilità sociale.
Finiti gli anni in cui investire in “progetti responsabili” aveva lo scopo di un “green washing” della propria attività e del proprio brand, le imprese stanno sempre più attivando progetti che, concretamente, estendono il proprio agire oltre le attività che ne definiscono la missione (chi siamo, cosa facciamo e perché), e sono alla base della redditività e del profitto, per abbracciare attività che mirano a migliorare la vita lavorativa, o per meglio dire l’esperienza durante le ore di lavoro e non, di dipendenti e collaboratori, comunità e territori di riferimento.
La memoria corre – ovviamente – alle “Fabbriche” di Adriano Olivetti, il protoprogetto di azienda socialmente responsabile. Da lì si può partire per raccontare “la via italiana alla CSR (Corporate Social Responsability)” che oggi è evoluta in una serie di progetti in cui al centro si pone l’azienda in tutte le sue sfere , un soggetto vivo e complesso che si relaziona, anche non per motivi di business, con una serie di interlocutori (stakeholder) di diverso tipo e con diverse esigenze, a cominciare proprio dai lavoratori, dalle rispettive famiglie, e dal territorio tutto sul quale l’attività d’impresa insiste.
In quest’ottica si leggono i diversi progetti di welfare aziendale (è notizia recente che Barilla ha messo a disposizione dei dipendenti un osteopata o che Lavazza ha aperto la palestra interna nella nuova sede di Torino), le attività di “community engagement”, come le fabbriche aperte o open day, piuttosto che una serie di attività laboratoriali volte ad ascoltare territori e comunità e a costruire dibattiti aperti attraverso i quali sia comprendere le esigenze di chi vive dentro e fuori l’azienda, sia costruire con quest’ultimi, l’agire di impresa, progettando dapprima dei significati condivisi (il senso del nostro agire verso alcuni obiettivi) e, come conseguenza, progetti inclusivi e partecipati, come quelli portati negli esempi poco sopra.
Queste azioni rientrano tutte nel solco storico delle attività di relazioni pubbliche (ovvero il mio ambito professionale originale), ma solo oggi iniziano a trovare pieno compimento.
Questa evoluzione è da tenere in grande considerazione. Se, da un lato, il driver principale è trovare modalità per garantire all’azienda risorse produttive e motivate da cui trarre progetti vincenti e, quindi, profitto, dall’altro il meccanismo che a mio avviso viene attivato con la CSR è quello della responsabilità.
Il messaggio che la CSR dà all’interno e all’esterno dell’azienda è proprio questo: riconosciamo che il nostro agire ha effetti non solo sul business, ma su una moltitudine sfaccettata di interlocutori, bisogni, desideri. L’azienda, così facendo, assume verso i propri interlocutori un ruolo quasi pedagogico, perché funge da esempio.
Questo ruolo è ancor più determinante perché il disfacersi del ruolo, e soprattutto della reputazione degli organismi intermedi classici del ‘900 (partiti, sindacati, organizzazioni datoriali, una fetta di mondo associativo) genera un vuoto che l’impresa sta raccogliendo su di sé. In fin dei conti le ricerche lo dicono chiaro: nei confronti delle imprese c’è fiducia e, soprattutto, essendo vissute quotidianamente dalle persone, sono percepite come proprie, vicine, a differenza di organismi di rappresentanza democratica che, più volte, hanno dimostrato un carattere autoreferenziale e lontano dai bisogni di un mondo che attraversa una crisi profonda del capitalismo e degli effetti che questo ha avuto sulla vita di molti.
In questa evoluzione del modo di fare impresa si nascondono, a parer mio, una grande opportunità e una minaccia.
A livello di opportunità, il ruolo “pedagogico” svolto da organismi complessi responsabili può avere un grande impatto sulla consapevolezza dei singoli in merito al proprio valore e al tempo che dedicano al lavoro.
In sostanza: l’impresa, attraverso i propri comportamenti, comunica un’attenzione all’individuo che l’individuo medesimo potrà rivendicare in futuro. Se offri servizi, opportunità, apertura, percorsi condivisi di co-creazione di progetti e significati…difficilmente potrai farne a meno in futuro. Inoltre questo può – ed è il mio auspicio – generare una presa di coscienza di ciascun lavoratore in merito al proprio valore come individuo e al valore del proprio tempo. Se, ad esempio, ho diritto a percorsi democratici aziendali, a vivere in maniera migliore il mio tempo, a godere di opportunità che prima erano solo chimere…perché tutto questo deve limitarsi a quanto mi offre la mia azienda, o quelle del mio territorio, e non essere un diritto precostituito?
Questa domanda può aprire grandi scenari sulla revisione del senso del tempo lavorato e del tempo in senso assoluto, spingendo le persone a chiedere (e auspicabilmente ottenere) un miglior equilibrio tra le attività che ogni giorno vengono svolte. Ad esempio lavorare meno in azienda e avere maggior tempo per le proprie passioni, per i figli, per quanto ciascuno ritiene arricchente per sé. È chiaro che tali potenziali (e ripeto, auspicabili) prese di posizione possono avere effetti dirompenti non solo sul mondo del lavoro, ma sull’intero patto sociale che sostiene le nostre democrazie. Vediamo. E speriamo.
Dal punto di vista della minaccia, il rischio è che sul cadavere dei grandi corpi intermedi del ‘900, l’azienda venga percepita come l’unica realtà non solo che può permettersi certi progetti, ma che anzi è deputata a portarli avanti. Questo porterebbe ad una sorta di “inglobamento” capitalistico del buono che c’è nelle azioni di responsabilità sociale. Trasformando l’impresa in un’entità “giusta”, ma anche nell’unica ad esserlo, e nell’unica ad esserlo “con regole proprie”. Cioè erogo servizi e opportunità a fronte di 40 ore di lavoro a settimana e con il medesimo stipendio.
Io mi auguro che sia l’opportunità a prevalere e che quanto offerto dai progetti di CSR rappresenti un ulteriore canale di “risveglio e azione” che possa portare l’uomo a compiere un ulteriore passo verso maggior equilibrio, equità e uguaglianza.
Alberto Marzetta
[Fonti delle immagini: newslaudry.com, fondazioneadrianoolivetti.it, adesital.it, charityworld.com; culturaeculture.it; Immagine di copertina: sostenibileresponsabile.wordpress.com]
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