Si è appena conclusa la settima edizione del Torino Underground Cinefest, ideato e diretto dal regista Mauro Russo Rouge, affiancato da Annunziato Gentiluomo e Matteo Valier, e realizzato dalle associazioni ArtInMovimento e SystemOut. Come annunciato, nonostante la versione special in streaming sulla piattaforma italiana Indiecinema e su MYMOVIESLIVE, le giurie hanno fatto il lavoro decretando, nelle due categorie in concorso, lungometraggi e cortometraggi,
Si è appena conclusa la settima edizione del Torino Underground Cinefest, ideato e diretto dal regista Mauro Russo Rouge, affiancato da Annunziato Gentiluomo e Matteo Valier, e realizzato dalle associazioni ArtInMovimento e SystemOut. Come annunciato, nonostante la versione special in streaming sulla piattaforma italiana Indiecinema e su MYMOVIESLIVE, le giurie hanno fatto il lavoro decretando, nelle due categorie in concorso, lungometraggi e cortometraggi, rispettivamente come Miglior Film Echo di Amikam Kovner e Assaf Snir e Take care di Itamar Giladi, che hanno ricevuto i premi in denaro.
La Giuria dei Lungometraggi, composta da Fabrizio Odetto (Presidente), Alessandro Amato, Davis Alfano, Paolo Armao, Laura Salvai e Alessio Brusco, ha motivato la sua scelta dicendo che Echo è il riflesso frammentato di un peccato antico (il tradimento) che viene qui affrontato con estrema originalità e delicatezza, attraverso una narrazione fatta di immagini e suggestioni simboliche, fortemente metaforiche, in cui i personaggi sono avvolti da una penombra emotiva che li spinge a comunicare in maniera indiretta e differita.
La sceneggiatura è di gran pregio, come sublime è la scrittura dei personaggi, così ben caratterizzati ed equilibrati, sul bilico delle loro vite.
La regia, armoniosa ed elegante, non risulta mai invadente e non ha paura dei silenzi.
Una storia potente, carica di un malinconico senso di irrisolto; un mosaico di istantanee in cui ogni tassello alla fine si incastra perfettamente, conducendoci verso una crudele, sublime verità, di fronte alla quale non possiamo fare a meno di interrogarci.
La Giuria dei Cortometraggi formata da Annunziato Gentiluomo, Armand Rovira, Nicolas Gauthier, Stefano Semeria, Andrea Morghen, Roberto Vietti, Raimondo Livolsi, Guglielmo Francavilla, Jacopo Schieda, Luca Del Fuego Confortini e Carlo Conversano, motivano tale scelta sostenendo che Take care è un film crudo di grande complessità tematica e di notevole tensione emotiva: si intrecciano in sé i temi dell’immigrazione, della sanità, dei rapporti famigliari in un’America che è crocevia di culture e in cui i diritti non sono certo uguali per tutti.
Un film drammatico che in un tempo breve racconta le criticità della vita dei Chicanos, manifestandosi sociale e politico senza necessariamente volerlo essere.
La disperazione trascina il protagonista a infrangere le regole, ma il rimorso lo trattiene dall’atto finale del crimine. È l’attitudine del personaggio, la sua bontà d’animo, a emergere da una deviazione morale inesorabile, annunciata e delineata. Nonostante ciò non viene premiato, forse perché ha girato le spalle ai suoi principi e alla sua fede, vendendo al banco dei pegni la sua croce d’oro, e perché non ha creduto nella possibilità di un aiuto da parte dell’altro, caricandosi su di sé il peso di tutta la situazione, legittimando con orgoglio la sua condizione di immigrato. In questo retro-front, ritroviamo una luce inaspettata, una sua rinascita, una sua liberazione. Il climax è raggiunto dal finale reso magistralmente dall’israeliano Itamar Giladi nel primissimo piano del protagonista che ricorda lo stile del regista Martin Scorsese nella scena cult di Mean streets.
Dal punto di vista tecnico è un prodotto veramente notevole, in cui sono rintracciabili una consapevolezza registica, un uso eccellente della fotografia e del suono e un impianto narrativo caratterizzato da implicazioni storiche e personali che vanno ben oltre la pellicola e che la avvicinano alle logiche di un lungometraggio.
“Take care” non è, dunque, un lavoro di comunità o un lavoro pro o anti-migrante, ma vuole mostrare solo (ed è molto) che nulla – né le difficoltà, né l’avidità, né il pianto, né la vittimizzazione, né la paura e nemmeno il senso di colpa – sono all’altezza dei valori.
Rimanendo tra i lungometraggi, la Giuria ha assegnato il premio come Miglior regia a Ton Van Zandvoort (Sheep Hero), sostenendo che rendere accattivante un documentario è un’impresa piuttosto ardua… La regia di Ton Van Zantvoort ci riesce in modo superlativo!
La cura per la composizione delle inquadrature rende ogni frame un delizioso dipinto bucolico. La presenza della macchina da presa non risulta mai invadente, riuscendo a dare al pubblico l’illusione di trovarsi davvero lì, in quel preciso momento, assieme ai personaggi (e alle pecore) che popolano questo spaccato di realtà campestre, incorniciato in una composizione fotografica “frame as canvas” mai fine a se stessa.
Per la sensibilità e la profondità con cui affronta il conflitto tra tradizione e innovazione, tra sogno e realtà, tra sicurezza e libertà, tra vita personale e vita sociale, tra mondo interno e mondo esterno, tra semplicità e complessità.
Per l’intelligenza nell’uso semantico duplice del gregge: come gregge reale, fisico, da seguire attraverso i grandi spazi della natura, guidati dai migliori ideali, e come gregge metaforico a cui conformarsi, sacrificando ogni desiderio di libertà.
Per il magistrale utilizzo dell’artificio cinematografico, ben mascherato, quasi invisibile nel raccontare con sguardo discreto una storia necessaria che proietta e immerge lo spettatore nella crudeltà della condizione umana.
Una storia in cui ogni sentimento emerge cristallino, spontaneo, sincero, Autentico al limite del commovente!
La Giuria decreta come Miglior Attrice Yaël Abecassis (nel ruolo di Ella in Echo di Amikam Kovner e Assaf Snir), per la classe e la maturità della sua interpretazione, fulcro e cardine su cui poggia l’intera narrazione e intorno a cui ruotano e si arricchiscono di senso tutte le altre caratterizzazioni.
Per l’eleganza e il talento con cui riesce ad esprimere sottilmente il duplice dramma di una donna che si trova, da una parte, a ferire il cuore dell’amato, e dall’altra a patire la sordità emotiva che da esso scaturisce e che sta alla base del suo gesto, incarnando al contempo il ruolo di carnefice e di vittima sacrificale.
Il mondo interiore del suo personaggio si rivela lentamente, rendendo sempre più concreto e meno evanescente l’eco della sua storia, portandoci a concludere che nel tradimento non esiste chi vince e chi perde, chi ha colpa e chi ha ragione, come non esistono la verità e la menzogna…
Esistono soltanto anime fragili che si spera possano trovare nei propri errori la forza e il coraggio di sublimare la loro umanità.
Il Miglior Attore è, invece, Adar Hazazi Gersch (nel ruolo di Eden in Doubtful di Eliran Elya) per aver accompagnato con efficacia lo spettatore nell’esplorazione del disagio interiore, delle difficoltà relazionali e della rabbia di un giovane problematico con tendenze autodistruttive che, nonostante la sua incapacità emotiva di fidarsi ed affidarsi, è in cerca di un riscatto.
Un’interpretazione straordinariamente equilibrata e intensa, mai sopra le righe che traccia un sottile confine tra Finzione e Verità.
La recitazione di Adar trova il suo punto di forza nella repressione coatta di ogni sentimento empatico; la sospensione emotiva che deriva dal “non detto” porta alla luce la dirompente sofferenza psicologica e il grido d’aiuto inespresso del suo personaggio…
Come una miccia silenziosa, la sua anima brucia lentamente verso l’epilogo, in cui passioni e turbamenti trovano finalmente il loro potente, catartico sfogo!
La Giuria dei Lungometraggi assegna la propria Menzione Speciale ad Adnan Omerović (attore protagonista e co-sceneggiatore in Majnuni di Kouros Alaghband) con tale motivazione: La poetica visionaria che scaturisce dalla scrittura e dalla diretta interpretazione di Omerović ha sullo spettatore un effetto ipnotico e straniante che merita un giusto riconoscimento.
La straordinaria potenza del linguaggio onirico, unita alla lucida, destabilizzante follia che brilla negli occhi del protagonista, rendono questa singolare e affascinante opera indipendente degna di arrivare all’attenzione del grande pubblico.
Nella sezione cortometraggi, la Giuria ha assegnato il premio come Miglior regia in ex-aequo a Konstantina Kotzamani (Electric Swan) e a Marie Losier (Felix in Wonderland), due donne.
Rispetto alla regista Kotzamani, così viene motivata la scelta: la composizione onirica e surreale è diretta magistralmente da Konstantina Kotzamani che offre uno sguardo verticale sui rapporti di classe. Emerge così uno spaccato sociale evidente dove ogni personaggio è cristallizzato in una maschera e recita un ruolo predeterminato. Nel grande schermo assistiamo a movimenti stereotipati di burattini che agiscono in uno scenario che via via si fa sempre più grottesco e che sono sapientemente orchestrati dalla regista. “Electric Swan”, in sintesi, è un’eccellente espressione registica di realismo magico.
Per quanto riguarda invece la regista Losier, la Giuria sostiene che dirige con acume e tecnica questo documentario che esplora il mondo del musicista dadaista Felix Kubin. Colpisce il prodotto nella sua globalità che si esprime in un caleidoscopio di colori, suoni, sperimentazione e ricerca musicale. Un lavoro tecnicamente impressionante, frutto della perfetta sinergia con Aël Dallier Vega che ha gestito con empatia il montaggio, un lavoro che mette al centro lo stesso Felix, artista a tutto tondo, che si fa dirigere con naturalezza, esprimendo se stesso e ciò in cui crede.
Una regia immersiva che coniuga genialità, contenuti di musica elettronica, storia della musica e fisica quantistica, ed eccessi. Stupefacente!
La Miglior Attrice è Linde Van Der Storm (Till the end of the world di Florence Bouvy) poiché è dotata di quell’espressività, di quegli sguardi intensi e di quella gestualità rintracciabili in un’attrice ben levigata e che ha alle spalle un’importante carriera. La sua è un’interpretazione superlativa e convincente da tutti i punti di vista. Il rapporto tra padre e figlia non tralascia nulla all’azione performativa attorale, ma è verità assoluta: sono padre e figlia. La bambina offre un repertorio di sfumature, umanità di un’infanzia forzata a una crescita rapida per la situazione di isolamento e incertezza in cui vive. Nel suo amore incondizionato per il padre, desidera affetto, ma si prende cura di lui, palesando un’evidente capacità di entrare in sintonia con la situazione in cui si trova.
Il Miglior Attore è invece Denis Lavant (The Figurant di Jan Vejnar) che ha dimostrato in quasi quarant’anni di carriera di sapersi muovere agevolmente fra i ruoli più disparati grazie a una fisicità unica e tipicizzata. In Figurant lui è tutto: è il focus di questo cortometraggio distopico e ne è il motore.
Il suo è un personaggio beckettiano senza voce e tormentato, una figura a tratti grottesca e totalmente alienata, trascinata dagli eventi. Incarna il cosiddetto clown bianco che viene spinto in scena, trasportato inerme dagli accadimenti: è realmente una comparsa e non il protagonista delle azioni.
Ogni suo movimento, ogni suo aspetto, ogni suo atomo rivelano, difatti, intenzioni antagonistiche tra uno spirito pronto a giocare e un corpo di sensibilità animale troppo lento per partecipare a questo gioco di ruolo, di cui è un burattino.
La Giuria dei Cortometraggi assegna una Menzione Speciale a Tattoo di Farhad Delaram, corto che impone ai nostri occhi un labirinto di ipocrisia sociale nel quale lo spettatore attiva naturalmente un processo di immedesimazione che lo porta a voler quasi entrare in scena e scuotere la protagonista o difenderla dalle ingiuste aggressioni che subisce. La donna è una vittima di una società per la quale è solo subdolamente libera: tale mancanza di libertà viene riprodotta simbolicamente dagli ambienti in cui si consuma l’azione, tutti talmente chiusi da far vivere anche a chi guarda un senso di forte claustrofobia. Contro questi si scaglia la protagonista che arriva a tatuare se stessa sulla mano, come atto di ribellione alla sua costrizione culturale. Fotografia, suoni, location e colori partecipano al dramma in una manifestazione puntuale di una ricca semplicità capace di muovere contrastanti emozioni e di esprimere, attraverso la storia vera di Dena Rassam, una chiara critica sociale inerente ai diritti della donna.
Il Premio del pubblico è andato al documentario sociale Dentro il collettivo di Lorenzo Melegari, un appassionante viaggio sul confine incerto tra legalità e giustizia.
Il Premio come Miglior Sound Designer è stato conferito da Paolo Armao a Easy does it (di Will Addison – Sound Designer: Ben Sellers), per la grande attenzione dedicata al concept sonoro che può rivelarsi un omaggio al timbro sonoro dello “Spaghetti Western”.
Il montaggio del suono regala ritmo alla scena, contribuendo a rappresentare il mondo surreale dei due personaggi principali.
Davis Alfano, invece, assegna il Premio come Miglior Fotografia a Olma Djon (di Victoria Yakubov – Fotografia: Iskander Narymbetov) per aver trasformato una natura intatta e un paesaggio metafisico, con immagini che mostrano con chiarezza il conflitto dei personaggi, indicando attraverso la figura del padre le difficoltà nascoste in ogni essere umano.
La Menzione ArtInMovimento Magazine viene attribuita a Mare di Guille Vàzquez, un film poetico, delicato, dal grande valore simbolico che riesce a ritrarre il disagio psichico con pennellate speciali in cui si sovrappongono la verità percepita e quella oggettiva. Sette minuti tecnicamente convincenti con una fotografia e una colonna sonora impressionanti, in cui si distingue la dedizione del figlio per la madre.
Gli allievi della classe 4AGC dell’I.I.S. Giulio Natta di Rivoli conferiscono il loro Premio a Rood di Falko Jakob per la trama emozionante e soprattutto per l’ottima opera del sound designer che ha saputo trasmettere emozioni e immergere il pubblico attraverso la colonna sonora. Notevole il lavoro di post-produzione e il montaggio, bella la fotografia e bravo l’attore che è riuscito ad entrare nel ruolo veicolando quella suspense propria del genere horror.
E cala il sipario anche su questa speciale edizione del Torino Underground Cinefest senza amaro in bocca. Ci siamo messi alla prova e in un gioco di trasformismo abbiamo realizzato una versione streaming di cui sono veramente orgoglioso. I numeri hanno dimostrato che l’esperimento è riuscito e che il nostro “non arrenderci” è stato premiato. Stiamo lavorando per la prossima edizione che sarà sicuramente di otto giorni, dichiara Mauro Russo Rouge, direttore artistico del TUC.
Si ricorda che i mediapartner del settimo TUC sono stati ArtInMovimento Magazine (che ha curato anche l’ufficio stampa), MYmovies, Italia Che Cambia, Piemonte Che Cambia, CameraLook, Movieplayer, Nocturno, Sentieri Selvaggi, Psychofilm, La Settima Arte e TorinOggi; i partner tecnici sono MYMOVIESLIVE, Indiecinema, Forword ed Event Horizon; mentre i partner culturali sono BIMED – Biennale delle Arti e delle Scienze del Mediterraneo -, Ambrosio Cinecafé, CineTeatro Baretti, I.I.S. Bodoni-Paravia di Torino e I.I.S. Giulio Natta di Rivoli (TO).
Un’edizione straordinaria che è servita al TUC per misurarsi con lo streaming, con realizzare nuove sinergie e per dimostrare che è possibile rimanere proattivi anche in emergenza. È stato un reale servizio, un inno alla bellezza e un modo per aprire nuove possibilità. Chissà in quanti seguiranno la strada scelta dal Torino Underground… Complimenti, ragazzi!
Chiara Trompetto
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