Di seguito riportiamo la replica della Direzione artistica del Festival Armonie d’Arte alla recensione de La traviata di martedì 7 agosto, firmata dal nostro direttore responsabile Annunziato Gentiluomo. Gentile Direttore, La ringrazia mo per l’attenzione dedicata alla nostra Traviata. Abbiamo letto con interesse la sua critica. Essendo Lei un esperto di opera lirica non potevamo
Di seguito riportiamo la replica della Direzione artistica del Festival Armonie d’Arte alla recensione de La traviata di martedì 7 agosto, firmata dal nostro direttore responsabile Annunziato Gentiluomo.
Gentile Direttore,
La ringrazia
mo per l’attenzione dedicata alla nostra Traviata. Abbiamo letto con interesse la sua critica. Essendo Lei un esperto di opera lirica non potevamo aspettarci ammende, né, del resto, le chiediamo. Dunque grazie. Tralasciamo in questa replica molti e diversi aspetti (alcuni dei quali molto tecnici, altri che hanno il s
entore di una “polemica di costume” quasi personale con il direttore artistico, altri che forse semplicemente evidenziano qualche elemento a Lei sfuggito – ad esempio nei quadri di Smoe abbiamo visto per la seconda scena il verde del giardino, e dopo, anche la finestra del salotto, rossa con le sbarre, come la “prigione” dell’amore borghese), ma, riprendendo il filo, tralasciamo molti e diversi aspetti volutamente, a
vantaggio di uno, che ci sembra qui il più significativo, e che ci sta più a cuore esprimere per equilibrare, o quantomeno ampliare, il Suo dire forse un po’ parziale. E per farlo prendiamo in prestito le parole del grande critico d’arte che con la sua supervisione ha firmato l’operazione di Armonie d’Arte Festival al Parco Scolacium (qualcosa di più complesso della sola Opera, evidentem
ente). È un passaggio dell’intervista che l’onorevole professore Vittorio Sgarbi ci ha concesso. “Fra tutte – scrive il noto critico – dico che questa che oggi mi porta nel Parco Archeologico di Roccelletta di Borgia è senz’altro fra le più spettacolari e originali iniziative calabresi, paragonabile a Caracalla a Roma. Siamo in una situazione privilegiata, colpevolmente dimenticata dallo Stato, come accade in quei luoghi all’aperto nel Mondo
dove è possibile creare una evocazione, una suggestione. Non si possono valutare queste occasioni come situazioni qualunque della Cultura e dello Spettacolo dal vivo in una regione: un luogo come Scolacium appartiene al Mondo, come il Teatro di Taormina, di Siracusa, l’Arena di Verona. Scolacium è un luogo fuori da tutto, di assoluto privilegio scenografico. Siamo in uno dei dieci luoghi d’Italia in cui l’eccezionalità dell’ambientazione ti fa essere in
un altro tempo, in un altro spazio, in cui è difficile anche dare un giudizio su un livello medio. Non sarà magari il luogo dove si fa la migliore lirica d’Italia, ma certamente fare la lirica a Scolacium è talmente eccezionale che dovrebbe essere in un cartellone europeo, non di una città o di una regione, ma dell’Europa tutta, in cui mettere dentro l’Irma, l’Arena di Verona, Armonie d’Arte, entità
extraterritoriali, che, ripeto, appartengono al Mondo, non ai singoli luoghi. Speriamo – ha aggiunto – che su questo luogo si accendano riflettori perenni”. Ecco, forse alla sua critica (pertinente e tecnica, di cui ancora La ringrazio) manca una visione d’insieme, una cornice ampia sul senso complessivo che una simile operazione, con le risorse disponibili (che, se si occupa di Cultura in Calabria, conoscerà bene) rappresenta. Lei segue da molto tempo la carissima e validissima Maria Teresa Leva. Forse non ha avuto modo di conoscere
ancora a fondo la storia di Scolacium, del Festival, della Fondazione, che sta cercando di sostenere l’operazione, appunto, complessiva, con immani sforzi e difficoltà, cui fanno da contraltare gli alti momenti artistici, come quello dell’altra sera, cui affidiamo il nostro messaggio di positività e bellezza al Mondo, con l’orgoglio dell’abito rosso. E dunque, non sarà una lirica perfetta, certamente, ma è la Lirica in un luogo del Mondo fino a qualche anno fa coperto solo dalla polvere che lo Stato ha saputo riversarle sopra, tagliando i fondi, quelli sempre,
e lasciandovi crescere alta l’erba. Di giorno purtroppo visibile a tutti, perché non di nostra competenza. Di sera, invisibile agli occhi, a vantaggio, per fortuna, di altro… Dunque, concludo: grazie ancora, cresceremo anche grazie a questi suoi spunti, che sul piano tecnico la direzione artistica si riserva di puntualizzare in altra occasione, che potremo trovare insieme. E speriamo che cresca la Calabria tutta, nel segno di una parola, l’ultima che Sgarbi ha pronunciato, nel ricevere il riconoscimento destinato a Pippo Marra, calabrese che ha iniziato la controinformazione in Italia, e con la quale il critico e intellettuale, provocatorio e illuminato, ha scelto di chiudere il suo ringraziamento: “libertà!”.
Riportiamo di seguito la nota tecnica di Chiara Giordano.
“Sarò sintetica per punti, ma preliminarmente tengo a rappresentare che, comunque, ritengo sempre molto positivo e proficuo il confronto, anche quando si portano visioni, ragioni ed opinioni di segno diverso; e dunque auspicabile sempre.
D’altra parte non posso e non voglio esimermi dal contrastare con specifici argomenti la nota di totale dissenso di Annunziato Gentiluomo, anche perchè non sono un’organizzatrice di eventi, ma un direttore artistico con una formazione non solo di management (studi specifici bocconiani e altro ancora) ma soprattutto musicali (con attività ampia e di rilievo, in corso e in contesti di prestigio, anche meritevole di essere diretta da figure stellari come il Maestro Zubin Mehta), oltre ad avere una vasta esperienza diretta in altri contesti musicali classici, e un vissuto di frequentazione consueta dell’opera, del dietro le quinte ecc (naturalmente questo lo scrivo solo per cronaca e per accreditare il ragionamento di seguito riportato, laddove si avessero dubbi sull’origine delle competenze).
L’area spettacolo di Scolacium non è adatta ad allestimenti tradizionali; la collisione con la chiesa normanna rende ogni scenografia “piccola e inutile”; da qui, innanzitutto, la scelta di fare altre sperimentazioni; si tratta infatti di questo, come ben recita il titolo suo portale “Opera Lab”.
Nonostante il carattere dichiarato sperimentale, abbiamo strutturato una regia precisa, studiata, articolata, coerente dall’inizio alla fine, con una motivazione forte e chiara.
Tant’è che il concept registico risponde ad una domanda: “cosa può restituire oggi la lirica ai giovani, e soprattutto a quelli che usano altri linguaggi? “
Tant’è che il concept registico esprime un criterio unitario: non descrizioni, non narrazioni didascaliche o affini, ma una sistema di simboli, in scena, nei costumi, nel lavoro del visual arti live; quindi nelle forme, nelle coreografie, nei colori ecc;
Tant’è che nel primo è stato scelto e messo in scena solo un tavolo che evoca la convivialità, nel secondo un divano come segno di casa e poi di salone da festa ( cambiando colore), e nel terzo un letto.
Tant’è che ogni atto ha avuto un colore chiave, rispettivamente rosso, verde e blu (ovviamente con il richiamo nuovamente al rosso nella seconda parte del secondo atto ovvero alla “Festa di Flora”).
Tant’è che per esaltare la simbologia del colore, e per non contrastare troppo con quanto si andava a delineare sul fondo con la street art, solo Violetta ha avuto un costume colorato, mentre tutti gli altri vestivano anonimo nero di smoking o assimilabile (piccola eccezione per Flora con abito nero, e Alfredo nella seconda parte con giacca più casual, e ovviamente alcuni danzatori per come più avanti indicato).
Tant’è che nella parte corale del secondo atto, tutta la simbologia della festa, e della frivolezza parigina, è stata resa con elementi di leggerezza e di retorico ammiccamento erotico, qui dal sapore ovviamente di gioco, come tutù rossi, fazzolettida taschino, boa piumati, mascherine, e un piccolo richiamo alla nostra terra, con i matador portatori di ghirlande di lunghe corna rosse, in vero peperoncini di 30 cm.
Tant’è che è stata messa in campo una ricca coreografia che ha svolto 3 importantissime funzioni: la prima, solo tecnica, di sostenere, con la partecipazione diretta e l’organizzazione in scena degli spazi, gli spostamenti del coro laddove le risorse economiche non consentivano il numero di prove necessarie per trasformare un corista in un attore ( il che, soprattutto all’aperto, sarebbe indispensabile); la seconda funzione era quella di rappresentare in scena le anime più intime dei due amanti (con identici costumi tra cantanti e danzatori), laddove la pagina verdiana le richiama esplicitamente con musica e parole, ma lo spazio aperto ne richiede un’amplificazione gestuale che non poteva essere realizzata dai soli cantanti (per quanto singolarmente espressivi); la terza funzione era quella di sostenere, con interventi chiarissimi, un’idea precisa di rappresentazione del contesto sociale, ovvero quella di esprimere, in coerenza con la sensibilità verdiana per le “masse”, quella società parigina nobile e borghese che nello stesso tempo era l’humus e la condanna di Violetta (solo ad esempio si ricorda all’inizio dell’opera la danzatrice, diciamo “controfigura” di Violetta, che attrae e respinge il coro- società; poi li vediamo animare le feste, poi rappresenteranno la beffa ad Alfredo con un danzatore che prende i panni femminili di Violetta, e infine saranno il carnevale lontano con coriadoli e botti di carta sullo sfondo dell’abside).
Tant’è che altro elemento chiaro era un ulteriore filo rosso di tutta la messa in scena: il coro e la protagonista agivano come calamite su un tavolo di polvere di ferro, di volta in volta respinti o attratti a secondo del verso, quindi evitando spazi larghi, e muovendosi in modo compatto per gruppi.
Senza contare lo slow motion iniziale, nella felliniana immagine della dimensione onirica di Violetta e della sua consapevolezza di una vita consumata: e infatti la parte musicale, la sinfonia, con il primo tema, richiama già la fine, di lei e dell’opera.
Senza contare i “fermi immagine” coreutici nel primo atto che, volutamente e al contrario di quanto evinto come diminuzio dalla critica, hanno contenuto l’ordinario ballo inziale che, con i coristi ( che d’altra parte non sono danzatori! ) diventa per lo più un ridicolo dondolio, e altre ovvietà di cui pure la maggior parte delle rappresentazioni tradizionali sono piene qua e là.
Senza contare che anche le tre danzatrici in abito da sposa, chiaramente allusive alla sposa mancata di Violetta, confermavano il senso simbolico di tutto l’allestimento, finendo anche per coprire il corpo esanime di Violetta alla fine, come angeli che la richiamassero in cielo.
Va peraltro detto che i loro movimenti definiti “schizoidi”, in realtà sono una delle cifre connotative della danza contemporanea più accreditata; e d’altra parte il coreografo, di formazione e attività anche americana, porta ed esprime tutto il bagaglio della lezione planetaria di Pina Bausch e la suggestione delle avanguardie newyorchesi.
Tant’è, ancora e infine, a proposito della regia e della sua supervisione del prof. Sgarbi, che anche il pannello di fondo su cui ha lavorato l’artista di strett art aveva il diffuso colore oro di base, simbolo senza tempo dell’opulenza reale o psicologica parigina, e su cui sono stati dipinti altrettanti simboli: colonne di saloni di festa per il primo atto, una finestra su una campagna per il secondo atto (con una griglia di infissi come una gabbia che ricorda quella sociale proposta proprio nel secondo atto dal padre di Alfredo), e un’interno tenero e buio di camera da letto per il terzo atto.
E quanto alla voce recitante, il tono era volutamente enfatico, proprio perché uno spazio aperto, per esperienza vissuta da diciotto anni, necessita di elementi retorici che catalizzano l’attenzione, anche di quanti, i più, sono distratti dall’oggettiva situazione di grande spazio appunto, e senza delimitazioni precise; quanto al testo, la trasposizione della trama era del tutto puntuale, punto per punto tratto dal libretto, ma ovviamente in estrema sintesi, forse tale da apparire non esattamente descrittiva, e le aggiuntive considerazioni occasionali erano un gesto etico e psichico che rappresenta, però e con forza, il grumo di una vasta letteratura francese, poi esplosa anche nel cinema della stessa aerea nel secolo successivo.
Sulle voci, sul coro, sull’orchestra, sul direttore, concordo pienamente; e naturalmente, soprattutto, sulla magnifica Maria Teresa Leva che siamo certi sarà ricordata a lungo, e a prescindere ad ogni regia possibile o impossibile.
Dunque il “caos percepito”, “l’infantilismo amatoriale” evidenziato, probabilmente sono, invece, l’opportunità di una pluralità di spunti da declinare. Siamo d’altra parte certi che, seppure la declinazione non fosse risultata agevole, generare Caos stimoli il Logos, e la prossima Opera magari sarà un inno all’Accademia.
Intendiamoci, personalmente amo gli allestimenti tradizionali, e comprendo i cosiddetti puristi; ma sono anche convinta che ad un mediocre allestimento tradizionale (l’unico possibile sotto la basilica normanna e con le risorse disponibili e senza il genio di Zeffirelli o Visconti ) sia preferibile il “pessimo” allestimento contemporaneo; naturalmente questo ultimo dire è un po’ un gioco; ma, diciamolo, “giocare” con la musica, con la danza, con le parole, resta il nostro primo intendimento, per approccio e per risultato.
E forse è l’unico modo per scoprire che, nonostante tutto, è possibile essere lievi e liberi, e che Verdi è immortale perché può essere di tutti.
In conclusione, ringrazio ancora dello stimolo argomentativo; magari fosse sempre così.“
Una rivista come la nostra che crede nel confronto e nella valorizzazione dei differenti punti di vista non poteva certo esimersi di dar spazio a questo misurato intervento.
Redazione di ArtInMovimento Magazine
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