Mercoledì 15 febbraio abbiamo assistito al Teatro Regio di Torino alla primissima esecuzione di Katia Kabanova di Leoš Janáček, una produzione della Vlaanderen Opera di Anversa e Gand in Belgio. Dopo La piccola volpe astuta della Stagione scorsa, prosegue con questa opera il progetto Janáček-Carsen, che prevede un titolo del grande compositore ceco riletto dal
Mercoledì 15 febbraio abbiamo assistito al Teatro Regio di Torino alla primissima esecuzione di Katia Kabanova di Leoš Janáček, una produzione della Vlaanderen Opera di Anversa e Gand in Belgio. Dopo La piccola volpe astuta della Stagione scorsa, prosegue con questa opera il progetto Janáček-Carsen, che prevede un titolo del grande compositore ceco riletto dal più geniale dei registi contemporanei, lo stesso Robert Carsen.
Un’ampia piscina con circa undicimila litri d’acqua e con una profondità di appena venticinque centimetri occupa l’intera scena del Regio. Tanti corpi concertati nell’acqua e un video come uno specchio ritrae movimenti analoghi evidenziando l’unico elemento naturalistico presente in scena, indice di duplicità, pari a quella della protagonista che vive il dissidio tra l’amore fedifrago e lo sforzo di esprimere pubblicamente la sua infedeltà, e la purezza di quello stesso rapporto extraconiugale che tanto le ha dato. Nell’acqua, che rappresenta il letto del Volga, come tante zattere, ci sono delle passerelle che le fanciulle spostano e poi rimontano creando dei contesti diversi. E vediamo all’inizio una struttura di strada elaborata sull’acqua con più direzioni e poi piano piano sempre qualcosa di più essenziale, una via con un’unica direzione o proprio la riva che separa i due amanti nel primo e ultimo incontro dopo la confessione pubblica.
Acqua perché richiama il fiume russo che fa da sfondo alla vicenda. Acqua perché simbolicamente vi sono i sentimenti e le emozioni al centro del dramma. Acqua per la duplicità della situazione e dello stato emotivo della protagonista. Acqua perché vi è un filtro che riflette e che in qualche modo condiziona il tutto. Acqua che rappresenta l’elemento che uccide la protagonista suicida, elemento verso cui già alla fine del primo atto aveva intensamente prestato attenzione, quasi a presagire quanto poi si sarebbe consumato.
Quasi ogni scena viene accompagnata dall’ingresso di questo bellissime fanciulle che creano giochi e coreografie dove si fondono con l’acqua.
Pochi elementi scenici a parte le piattaforme, che rappresentano il dentro delle abitazioni, e le vie che si montano come dei lego, a manifestare l’esterno, la strada. Nella seconda sedia qualche sedia. L’architettura è equilibrata.
La firma di Robert Carsen è evidente. Come sempre, in modo assolutamente essenziale, scava nel testo per riportare alla luce i significati più profondi delle opere che mette in scena. Per Katia Kabanova, delicato personaggio che soccombe sotto il peso della colpa per aver tradito Tichon, il marito, Carsen immagina appunto una scena formata da passerelle che galleggiano su uno specchio d’acqua. Questa instabilità, il riflesso delle luci sull’acqua e il perenne fluttuare delle scene, rimandano al mondo di Katia, alla sua spiritualità, alla sua intimità aggredita dalle convenzioni e dai complessi della comunità nella quale vive. La Kabanova di Carsen è un capolavoro di scavo psicologico e al contempo di poetica e tenue bellezza.
Muoversi su quelle passerelle non è certo agile per i protagonisti: sono isole che si incontrano e poi si allontanano, in un gioco di individualismi che portano all’isolamento più estremo. Il regista cura la gestione degli spazi, le relazioni e anche la stessa postura e l’angolazione dei suoi attori scegliendo a volte di far dare le spalle al pubblico. Nulla è mai scontato. Intensa la scena della confessione, dove si sviluppano delle diagonali trai presenti e anche un gioco di prospettiva forte che pare voler includere e richiamare il pubblico. Il marito è un binomio scenico con la madre Kabanicha che lo giustifica, lo difende e lo consola. Magistralmente reso il senso di colpa della protagonista reo confessa e il giudizio della claustrofobica comunità in cui vive, nonostante il perdono del marito ancora innamorato di lei. Intensa la scena finale dove vi è in controluce Boris e che segnerà il loro ultimo incontro, l’estremo saluto, prima del suicidio. Katia è ancora invaghita di lui. Ormai l’inesorabilità della vita ha avuto la meglio: è sopraffatta dalla disperazione più totale. E piano piano la luce è sulla protagonista la cui vita ha perso il suo senso più profondo, dopo aver appreso del viaggio del suo vero amore e quindi della loro definitiva separazione. Non le resta che lasciarsi andare nella corrente, mentre i vani soccorsi non vengono neppure sollecitati dalle luci concentrate sul corpo di lei, ormai fusa nelle acque del Volga. Quindi veramente eccelsa e curata la regia di Carsen, ripresa da Maria Lamont, dove viene ben fotografata la gretta società mercantile nata vicino al fiume della Russia europea.
Perfettamente funzionali i costumi degli anni Trenta di Patrick Kinmonth che firma anche le essenzialissime scene, mentre le luci di Peter Van Praet offrono profondità e permettono di concentrare l’attenzione su quanto avviene in scena, creando delle magnifiche istantanee al pari dei migliori fotografi. Efficaci, forti ed energetiche le coreografie firmate da Philippe Giraudeau. Tecnicamente dunque una pellicola cinematografica di eccelsa manifattura e di un lirismo poetico impressionante.
Buona la performance del coro istruito dal validissimo Claudio Fenoglio mentre notevole è il debutto sul podio dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino di Marco Angius, direttore di riferimento per il repertorio musicale contemporaneo. La sua direzione musicale è accorata e partecipata. Segue le variazioni della partitura con grande eleganza e colore. Interpreta con grande convinzione la scrittura musicale, capace di rendere poeticamente lo stato d’animo dei personaggi, tutto il loro universo emotivo, e si muove con estrema attenzione nella grande comunicazione tra voci e orchestra, divenendo un perfetto ponte grazie al quale si sbiadisce il confine tra parola e musica.
Rispetto ai solisti, bisogna premettere che non è sicuramente semplice confrontarsi con l’idioma musicale di Janáček, in quanto è modellato sulla parola e sulle cadenze della lingua ceca: il risultato, secondo Dahlhaus, è una “accumulazione di frasi musicali di lunghezza irregolare, costantemente variabile e senza una quadratura ritmica”, di non agile resa.
In primis, veramente notevole l’interpretazione di Andrea Dankova nel ruolo del titolo. Intensa, espressiva, vibrante, sempre presente. Riesce a rendere, in modo esemplare, l’animo dolce e gentile, un alito di vento la spezzerebbe via , come ben aveva definito Katia lo stesso Janáček. Rabbia, travaglio, dolore, disperazione e sogno vengono resi dal soprano lirico tanto attraverso la voce, caratterizzata da una meravigliosa linea di canto e una varietà di accenti, quanto mediante ogni singolo gesto che denota un’eleganza assolutamente personale che arricchisce e dà ulteriore spessore al personaggio. Dall’interpretazione della Dankova emerge, con evidenza, tutta la psicologia del personaggio che oscilla tra il dissidio interiore nel non tradire il marito e l’impossibilità di sostenere il propria senso di colpa. Evidente tutto l’isolamento prima sociale e poi comunicativo del personaggio ben caratterizzato dal soprano.
Pregevole l’interpretazione di Lena Belkina nei panni di Varvare. Il mezzosoprano, dalla voce luminosa, dal timbro caldo e da un’eccellente tecnica, rende con grazia ed efficacia la giovinezza, fatta di sospiri, di speranze e di palpitanti emozioni. Veramente un piacere ascoltarla.
Ben accentato e costruito il personaggio di Kabanicha, l’arida vedova, reso da Rebecca de Pont Davies. Nonostante qualche fragilità vocale, abbiamo apprezzato la grande forza scenica del mezzosoprano che si confronta, in modo credibile, con un ruolo impervio e musicalmente spigoloso.
Buona la performance di Misha Didyk nei panni di Boris Grigorjevič. La sua vocalità robusta e sonora da tenore drammatico ben si confa alla passionalità del personaggio che rimane imbrigliato però in un senso di frustrazione che l’ucraino ben fa intravedere.
Ben calato nei panni di Tichon Stefan Margita che rende con convinzione le fragilità del suo personaggio e la grande dipendenza dall’ingombrante madre. Bella voce, buona tecnica e ricorso a espressive mezze voci sono gli ingredienti che contraddistinguono la sua interpretazione.
Dotato di ottima musicalità, di potente voce, di notevole estensione e di caricare espressiva il basso-baritono Oliver Zwarg che rende efficacemente la prosopopea del corrotto e volgare mercante Dikoj.
Enrico Casari interpreta con grande attenzione, sensibilità e cura vocale e scenica lo slancio ideale del giovane intellettuale, Váňa Kudrjáš, che si scaglia contro la grettezza e la limitatezza del mondo che lo circonda.
Distinte vocalmente e scenicamente le prove dei comprimari: Lukáš Zeman (Kuligin), Lorena Scarlata Rizzo (Gláša), Sofia Koberidze (Fekluša) e Roberta Garelli (Una donna tra la folla) sono ottime spalle per i protagonisti.
Uno spettacolo quindi ben riuscito, poetico, impattante emotivamente che ha conquistato il consenso del pubblico, generoso di applausi. Un altro bel colpo per l’ente lirico torinese.
Annunziato Gentiluomo
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