Notevole il quarto appuntamento della VII edizione del Festival del Teatro Classico Tra Mito e Storia che ipnotizza il pubblico accorso numeroso. Ieri, sabato 13 agosto, al Palatium Romano di Quote San Francesco a Portigliola, è stata portata in scena la pièce in atto unico Falstaff e le allegre comari di Windsor ispirato all’opera di William Shakespeare Le Allegre Comari di Windsor per l’adattamento di Roberto
Notevole il quarto appuntamento della VII edizione del Festival del Teatro Classico Tra Mito e Storia che ipnotizza il pubblico accorso numeroso.
Ieri, sabato 13 agosto, al Palatium Romano di Quote San Francesco a Portigliola, è stata portata in scena la pièce in atto unico Falstaff e le allegre comari di Windsor ispirato all’opera di William Shakespeare Le Allegre Comari di Windsor per l’adattamento di Roberto Lerici. Quest’ultimo re-immagina il gentiluomo in qualità di reduce dalla Prima Guerra Mondiale, mentre raccoglie e commenta la più belle pagine che il drammaturgo di Stratford-Upon-Avon scrisse su di lui. L’ambientazione, infatti, è negli anni Venti, anni sospesi e ricchi di tensioni, sotto le vesti di un calma apparente da cui poi scaturiranno il fascismo e il nazismo e che porteranno al secondo conflitto bellico. Quel mood non è lontano da quello odierno, aspetto che rende assolutamente attuale la rappresentazione, instillando riflessioni e interrogativi sull’esistenza. Falstaff incarna in sé le ansie del suo tempo: uomo dotato di spessore, profondità e umanità riflette su un mondo comandato da un’idea di successo fagocitante e bombardato da false notizie e false calunnie, dove è sempre il dio denaro ad avere la meglio e in cui l’apparire si impone sull’essere. La sua convivialità va a braccetto con la sua ingenuità: se è vero che cerca subdolamente di far sue le due donne – Comare Ford e Comare Page – per approfittarsi di loro e dei denari dei mariti perché il suo portafogli è sempre più vuoto e per permettersi di mantenere la condizione di parassita sociale, dall’altra rappresenta ciò che di più positivo si lega al “grasso”, e quindi virilità, entusiasmo, passione, gioia, voglia di vivere, di mangiare e bere, di stare con gli altri. E la punizione sociale – prima privata e poi pubblica – non tarda ad arrivare. Il suo piano viene smascherato e al protagonista non rimanere che consegnarsi: Bene, sono il vostro bersaglio. Voi avete ogni vantaggio, ed eccomi abbattuto. Non sono capace di rispondere al montanaro gallese. Il più ignorante è capace di scandagliarmi. Usatemi come volete.
Dalle considerazioni di Roberto Lerici possiamo comprendere bene il senso di questa opera: Divertente come ‘Bisbetica domata’ e filosofico come ‘As you like it’, le ‘Allegre comari’ si colloca in un ‘mondo di mezzo’ che vuol far ridere delle nostre lacrime. Invitati giornalmente alla “cena delle beffe’’ l’uomo di oggi resta stritolato dal suo stesso meccanismo misto di vanità e interessi personali. Ma l’uomo per Shakespeare, fatto della stessa materia di sogni, contraddizioni che si assommano, utopie che svaniscono, si rassegna ma non muore. L’uomo esiste e resiste. E, nonostante tutto resta al centro del Globo.
Andando alla messa in scena che celebra i trenta anni della scomparsa dello stesso Roberto Lerici, è doveroso dar merito alla regia del figlio Carlo Emilio Lerici. Fresca, ritmata, opportuna, ragionata la sua direzione ben sfrutta le funzionali scene di Liborio Di Dio (tre porte e due salottini, e un’iniziale tavola bandita) che vengono spostate in base allo spazio necessario per l’espressione degli attori. E vediamo impegnati gli attori in un entrare e uscire di scena, sempre ben organizzato, come se si entrasse e si uscisse continuamente dalla locanda di Madama Quickly dove Falstaff alloggia, donna che rappresenta il vero deus ex-machina di tutta la messinscena. La sua regia si amalgama perfettamente alle musiche originali di Francesco Verdinelli che, strumento di passaggio scenico, riempiono, scandiscono il tempo, dando ritmo allo spettacolo, e fanno respirare gli spettatori, e viene valorizzata dai bellissimi costumi di Annalisa Di Piero.
Straordinaria l’interpretazione di Edoardo Siravo, che carica di spessore emotivo il suo Falstaff che con lui diventa un uomo contemporaneo che fa i conti con la vita. Per questo affianca alla sua impostazione classica del teatro di tradizione, una verve scenica più quotidiana, più leggera, più spontanea che a volte mette in soffitta l’accademia, permettendo un più naturale processo di immedesimazione, attivato anche a dei piccoli riferimenti locali (la ‘nduja, ad esempio). Anche i suoi movimenti seguono questa interessante ambivalenza da cui emergono prepotentemente l’uomo stratega e brillante e la sua umanità, la sua ribalta e il suo retroscena, citando il grande sociologo Ervin Goffman.
In questo viaggio Siravo è affiancato da compagni eccellenti tutti assolutamente all’altezza del ruolo: offrono il proprio contributo al meglio, seguendo con devozione le indicazioni registiche e arricchendole con le proprie personali caratterizzazioni. Nel processo scenico diventano il proprio ruolo rimanendo se stessi. Il grande cast è composto da Francesca Bianco (Madama Quickly), Ruben Rigillo (Frank Ford), Marco Bonetti (Roberto Sciapito), Fabrizio Bordignon (Bardolfo / Fenton), Gabriella Casali (Comare Ford), Giuseppe Cattani (Abramo Carente), Beatrice Coppolino (Anna Page), Alessandro Laprovitera (Simplicio), Germano Rubbi (Don Ugo Evans), Susy Sergiacomo (Comare Page), Roberto Tesconi (Pistola / Dottor Caius) e Tonino Tosto (Mastro Page).
È difficile distinguere chi ha fatto meglio poiché tutti sono stati strepitosi. Forse un personale plauso va in particolare all’energia di Francesca Bianco che ha indossato con spigliatezza i panni di Madama Quickly, che tiene le fila di tutte le vicende che vanno dipanandosi; a Ruben Rigillo per il suo impetuoso Frank Ford, di cui ha ben tratteggiato il dramma della gelosia e la fragilità dell’uomo che teme le manchevolezze di chi ama; a Giuseppe Cattani per la coerenza con cui ha retto fino in fondo il complesso personaggio di Abramo Carente che si muove tra riservatezza, ingenuità, timidezza e non grande acume intellettivo e culturale; e ad Alessandro Laprovitera che ha incarnato con brio e simpatia il suo Simplicio.
Due ore di grande teatro. Un’occasione catartica per ridere e per riflettere.
Annunziato Gentiluomo
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