La prima settimana della 71a Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si chiude col botto: mentre star internazionali, fra cui O. Wilson, Al Pacino, P. Favino, A. Garfield, continuano ad affluire all’Hotel Excelsior, storico albergo della Mostra, e, fatto di corsa il check-in (che – diciamolo – a loro non serve), si precipitano a sfilare
La prima settimana della 71a Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si chiude col botto: mentre star internazionali, fra cui O. Wilson, Al Pacino, P. Favino, A. Garfield, continuano ad affluire all’Hotel Excelsior, storico albergo della Mostra, e, fatto di corsa il check-in (che – diciamolo – a loro non serve), si precipitano a sfilare sul red carpet, le sale si affollano sempre più.
Terminano le prevendite: tutto esaurito, dalla storica sede delle premiazioni, la Sala Grande, al PalaBiennale.
Il Lido della Serenissima rinasce, come solo lui sa fare in questo periodo: i veneziani (e non solo) timbrano i biglietti, affollano i vaporetti e scendono proprio qui; vanno in visita alla “casa” del cinema, e non importa se, a differenza delle star, non sono stati invitati. Ecco allora che italiani, giapponesi, koreani, inglesi e francesi (entrambi questi ultimi i più simpatici e inclini alle risate, a volte fuori luogo e ai limiti dell’amoralità) prendono posto gli uni accanto agli altri, spengono, o almeno dovrebbero, i cellulari e si abbandonano alla visione dimentichi d’ogni altra cosa, pronti a criticare o ad amare, a fischiare o a “sfornare” minuti di applausi.
Buona, buonissima la prima per la squadra di casa. Il primo film italiano in concorso, Anime Nere di Francesco Munzi, non delude le aspettative, anzi. La pellicola, quasi totalmente calabrese, girata ad Africo (per la prima volta set di un film) nella Locride e liberamente tratta da un libro, quello omonimo di Giocchino Criaco, ha riscosso il grande favore del pubblico, più che manifesto nei tredici minuti di applausi che, in Sala Grande, hanno accompagnato i titoli di coda. Il film, iperrealista e fedele ricostruzione della storia di vita di una famiglia mafiosa, un western nell’Aspromonte – come qualcuno lo ha definito -, sembra proseguire la via “neo-neorealista” avviata lo scorso anno dal regista vincitore Gianni Amelio (Leone d’Oro al film Sacro GRA). Mentre quest’ultimo riscopriva e “consacrava” – non “santificava”, beninteso – l’anello stradale romano, il regista romano (il quale ammette una “religiosa” devozione verso il cinema di Rossellini, e nondimeno quello di Scorsese) porta alla luce segrete verità sull’Aspromonte: dà vita a un mondo che sa di vero, a un bordo vertiginoso che separa Bene e Male, scevro di ogni pregiudizio. Una Calabria autentica, non idillica ma poetica. Quell’universo complicato che Corrado Alvaro dipinge in Gente d’Aspromonte, il suo mondo di pastori.
Lo show però non si ferma mai: deve continuare. I film in concorso a seguire quello di Munzi sono tanti, e i giorni passano veloci. Sabato è soprattutto il giorno della Francia, da cui provengono 3 Coeurs di B. Jacquote, e Loin des hommes di D. Oelhoffen. Impossibile fare paragoni. Il primo è un dramma moderno: la storia di un amore impossibile, di un triangolo amoroso familiare (che coinvolge due sorelle) che, nato quasi casualmente in una notte insonne, si protrae tra equivoci, complotti e tradimenti sino all’inevitabile crepacuore del protagonista, che paga il prezzo del suo incurabile bisogno di amare. Il secondo, invece, liberamente tratto da L’ospite di A. Camus, ambientato negli anni della guerra d’indipendenza algerina, è un road-movie in perfetto stile camusiano. È il viaggio esistenziale di un maestro di scuola elementare (V. Mortensen) che, pur assumendosi il compito di guidare un prigioniero verso il luogo della propria morte, gli fa riscoprire, al pari di Camus in L’Homme rèvoltè, il valore della vita, di quella vita in cui siamo tutti “condannati a morte”.
La mostra prosegue poi con la bandiera a stelle e strisce. È americano, sebbene il regista Ramin Bahrani non lo sia, il leitmotiv di 99 Homes, film impegnato in un’accanita disamina contro il mondo immobiliare statunitense e il suo sciacallaggio, con la star della saga Amazing Spiederman Andrew Garfield. E dopo The Cut di F. Akin, ennesima pellicola “odissiaca” (l’Ulisse in questo caso è un padre alla ricerca della propria famiglia, o meglio, di quel che ne rimane dopo il genocidio degli Armeni nel 1915), e Hungry Hearts di S. Costanzo, film inquietante, quasi schizofrenico nel rappresentare gli impulsi di Eros e Thanatos, amore e morte, di una madre nei confronti del proprio neonato. Ritorna finalmente sul tappeto rosso veneziano Mr. Al Pacino con Manglehorn di D. G. Green, questa volta nei panni, per lui inconsueti, di un uomo comune, solo e ormai incapace di amare, in un film umile ma a tratti visionario che fa della realtà poesia e della poesia realtà. L’atmosfera, infatti, malgrado i tentativi di svolta realistica, deve diventare poetica, quasi surreale.
L’aforisma di K. Vonnegut È tutto accaduto, più o meno, incipit del suo capolavoro Mattatoio n°5, esprime allora quell’ambiente ovattato, una nebulosa quasi felliniana di magia, fantascienza e irrealtà. E questo è la Mostra di Venezia, lo è sempre stato e vorrebbe esserlo soprattutto in questo periodo: il mondo della dolce vita, un iperuranio di bellezza platonica. Intanto allora, in attesa del film di Mario Martone Il giovane favoloso sulla vita di Leopardi, il festival si mostra per quello che è: universo in cui il cinema è verità, e verità è cinema. Perché, parafrasando J. Keats, poeta romantico inglese, anima gemella del recanatese, Beauty is truth, truth beauty, – that is all. Ye know on earth, and all ye need to know. («Bellezza è verità, verità è bellezza, – questo solo sulla Terra sapete, ed è quanto basta.») Basta davvero? Certo è che all’arte, al cinema, a Venezia basta. Eccome. Venezia!
Giuseppe Parasporo
[Fonte dell’immagine: oggialcinema.net]
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