Cosa spinge una persona normale (cioè non un vero atleta) ad alzarsi al mattino alle 4.45, prendere la macchina, giungere alle 7 a 1700 metri e, poco dopo, correre per quasi 24 chilometri risalendo la costa della montagna per oltre 1000 metri? “Chi te lo fa fare?” è la domanda che mi viene posta più
Cosa spinge una persona normale (cioè non un vero atleta) ad alzarsi al mattino alle 4.45, prendere la macchina, giungere alle 7 a 1700 metri e, poco dopo, correre per quasi 24 chilometri risalendo la costa della montagna per oltre 1000 metri?
“Chi te lo fa fare?” è la domanda che mi viene posta più spesso. La risposta è sempre la stessa: “non te lo so spiegare, devi viverlo”.
Appare una risposta banale, forse anche snob. Eppure, come capita sempre, o le esperienze le provi oppure non sai cosa ti consentono di vivere. Correre, peraltro, a me non piaceva. Quando circa un anno e mezzo fa ho cominciato, correvo poco e male e facevo una fatica incredibile. Lì, però, ho compiuto il primo passo verso la montagna: non ho desistito. Salire in quota, qualsiasi sia la quota (cioè in montagna o interiore), presuppone la resilienza. Se resisti un poco, la corsa poi restituisce: riesci a fare i primi chilometri senza odiare il luogo in cui sei, il sudore o il mal di gambe e, non appena si entra un po’ in forma, nasce il piacere.
È poi quest’ultimo a condurre. Come ogni “droga”, anche il piacere chiama il piacere e si continua. Aumenti chilometri, fai le prime gare, provi i primi trail, cioè la corsa su sterrato in salita o meno che sia. Più allunghi o più sali e più aumenti la fatica e il piacere.
Ecco, il mio Bettelmatt è stato questo: fatica e piacere. Nelle 4 ore (vado piano!) che ho impiegato per percorrere la strada prevista (la Bettelmatt Race è la gara più corta tra quelle per senior, superata dai 35Km della Bettelmatt Sky Race, dai 50 del Bettelmatt Trail e dagli 83 del Bettelmatt Ultra Trail, tutte gare che – oltre ai chilometri – prevedono crescenti dislivelli positivi da colmare), ho vissuto un mix di emozioni, stati fisici e psichici che possono essere ricondotti alla fatica e al piacere. Due “emozioni” che spesso sono attigue: più fai fatica, più il piacere è grande. Nella corsa e nelle “cose della vita”.
È questo che spinge.
Quando sono arrivato nella piana di Riale in Formazza, da dove la gara ha avuto inizio, avevo paura. Paura di salire, paura dell’eccessiva fatica, paura della montagna.
Poi ero euforico. Le persone, la musica, un ambiente naturale di esplosiva bellezza, i colori e i profumi dell’estate in montagna.
Poi si parte e le due condizioni emotive si compenetrano.
Sono partito correndo. Ho corso il primo chilometro e poi ne ho camminati 3 in decisa ascesa. A seguire è stato un su e giù tra sentieri in costa (e strapiombo), salite verso rifugi, accostamenti a laghi artificiali, fino in fondo all’ottavo chilometro, quando la strada piegava decisa in Svizzera. Il sentiero in quel punto corre in mezzo ai prati verdi. E mi son sentito bambino. Un bambino spensierato che insegue il vento, gli amici o un pallone. Le gambe girano, sei in alto (quasi 2.300 metri in quel punto) e non ero neanche ultimo in classifica!
Un altro tratto duro mi attendeva. L’ascesa verso il colmo dei circa 2700 metri di altitudine del mio percorso, dopo aver attraversato un tratto di neve e ghiaccio ed aver continuato fino all’ultimo passo, al penultimo lago artificiale, ad un colle dove il vento batteva cosi forte che la giacca che ho provato ad indossare a momenti volava via.
Infine la discesa. Il momento in cui i veri atleti recuperano tempo e tentano di vincere. Io sono sceso tra il grigio del cielo di quel momento e il verde col sole che vedevo a valle. Ho chiesto acqua ad un membro dello staff, e ho continuato la lunga discesa, verso il secondo ristoro.
Per riempire le borracce, la bocca e un po’ lo stomaco e sentirmi dire che in mezz’ora sarei arrivato al fondo.
A quel punto il più era fatto, ma dentro di me continuavo a ripetermi di stare concentrato. Un mantra utilissimo per non mettere un piede in fallo e cadere, magari nel vallone sottostante.
La strada è diventata via via più larga, ho raggiunto l’ultimo lago e l’ultima diga. Riale è tornata a incontrare il mio sguardo nel lato opposto rispetto a quello da cui ero partito quasi 4 ore prima.
La discesa, le persone che ti incitano e ti dicono che manca poco.
Il paese di Riale, il traguardo. La passerella che ferma il tempo, il silenzio e poi il rumore.
Ero tornato alla partenza, dopo aver corso, faticato, ammirato e ringraziato per dove ero (e chi mi aiuta a farlo: senza la pazienza e la disponibilità della mia compagna, Margherita, sarebbe impossibile) e per cosa avevo fatto.
Ero tornato da un viaggio, come aveva detto lo speaker ad inizio gara: un trail è un viaggio nella natura, ma, in fin dei conti, è un viaggio dentro di te.
La corsa e la fatica annullano la mente e i pensieri e li ti ritrovi con te stesso: con la paura di non farcela, la gioia di correre libero, l’euforia della quota, il senso di gratitudine, il dolore del corpo ed anche della mente che ha tenuto il punto per le ore che hai trascorso in gara.
Ecco cosa intendo con “non te lo so spiegare, devi viverlo”.
Per me correre è questo: non c’entra nulla il fitness.
Correre è incontrare te stesso, incontrare il limite e superarlo.
Correre è stare con te stesso e, quando fai il trail, con l’immenso che ti circonda.
Ringraziando di essere li.
Alberto Marzetta
[Immagini: foto dei paesaggi, ph Alberto Marzetta; foto di Alberto Marzetta, ph Arturo Barbieri – podisti.net]
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