Ti lasci alle spalle il Tempio della Lirica mondiale senza che le 2 ore e 15 trascorse lì abbiano lasciato dei segni chiari su di te. E rifletti e ripensi a quanto si è dispiegato innanzi a tuoi occhi e quanto si sia stato terribilmente impermeabile a tanto incedere. I due Foscari, complessa opera verdiana che ha ancora in nuce alcune
Ti lasci alle spalle il Tempio della Lirica mondiale senza che le 2 ore e 15 trascorse lì abbiano lasciato dei segni chiari su di te. E rifletti e ripensi a quanto si è dispiegato innanzi a tuoi occhi e quanto si sia stato terribilmente impermeabile a tanto incedere. I due Foscari, complessa opera verdiana che ha ancora in nuce alcune caratteristiche che poi sfoceranno nel Verdi maturo, proposta dal Teatro alla Scala di Milano, in scena fino al 25 marzo, non ci ha convinti.
Abbiamo trovato la regia di Alvis Hermanis piatta e poco curata, e incapace di valorizzare un’opera che di per sé è a tratti monocorde e caratterizzata da una melodia orchestrale indipendente dal canto. La sensazione che abbiamo vissuto è di qualcosa di incompiuto e abbiamo percepito l’assenza di una chiara idea registica sviluppata dall’inizio alla fine. Le scene firmate dallo stesso regista sono essenziali e si basano su lastre di compensato su cui vengono proiettate delle video-scenografie e pochi oggetti, espressione della sobrietà di tutto l’allestimento. L’unico elemento dinamico è l’introduzione di dieci mimi, vestiti color porpora e mascherati, che anticipano l’ingresso del Consiglio dei Dieci, identificandone l’anima oscura, diabolica, e rappresentando, dunque gli intrighi di una Venezia, retta da un’oligarchia tirannica e affidata a una ferrea gestione del potere. Caratteristici sono i loro movimenti delle mani che verranno ripresi alla fine da Loredano compiaciuto per essere riuscito ad eliminare i Foscari dalla scena politica della Serenissima.
Una regia ripetitiva nella gestione degli spazi e poco organizzata nei duetti in cui mancava, a volte, la complicità attoriale. Abbiamo trovato, inoltre, poco credibile il cambio sul trono tra Lucrezia e il Doge, per cui, in conclusione del quadro, è il grande “politico” a porsi ai piedi della nuora; il mescolarsi delle dame tra i membri del Consiglio e della Giunta; e l’ambientazione delle stanze private del Doge, caratterizzata semplicemente dal suo letto a baldacchino, in cui si inscena la conclusione della pièce alla presenza di tutto il cast. Non possiamo non citare la reazione infantile che il Foscari padre ha alla notizia della morte del figlio: si rinchiude nel suo letto, dove da lì a breve morrà alla vista di tutti.
Abbiamo apprezzato nell’ouverture il Doge immobile col Leone di Venezia a simboleggiare il suo servizio alla Serenissima e ai veneziani e anche il rapporto fra morale personale e quella politica su cui si costruisce tutta l’opera. Da annoverare l’utilizzo dei corpi e dei mimi proprio come scenografia, simulando nel loro movimento i gondolieri e un esercito con i bastoni. La profondità è affidata alla presenza di un tulle trasparente che separa la scena principale da quanto si svolge nel resto.
Buona l’idea dell’ultimo quadro del I atto che si apre col movimento di otto leoni e una leonessa alati, guidati dai mimi mascherati che simulano il Consiglio. Tutti contro Jacopo che giace dormiente ai piedi di uno, forse il più aggressivo che rimarrà fisso per tutta la scena. E mentre Foscari figlio esprime la sua disperazione i mimi si fermano e giacciono dormienti dietro le statue incuranti e indifferenti al dolore di un loro fratello. La solitudine, l’incomunicabilità, la sfiducia delle istituzioni lontane da chi ha bisogno e concentrate sulle proprie macchinazioni, sul proprio tornaconto, sui propri interessi, per il raggiungimento dei quali sono capaci di sfruttare chiunque. Molto poco organizzata però l’uscita che risulta disordinata e lasciata al caso.
Il regista si prende della libertà rispetto alla trama classica. Porta in scena i bambini, al cospetto del padre, anche nelle prigioni di Stato. Rende il personaggio di Jacopo meno inquieto e impulsivo di ciò che parrebbe essere: ad esempio, nelle prigioni, non si scaglia contro Loredano, come se fosse già convinto di quanto si sarebbe consumato e della triste sorte che lo avrebbe aspettato. E manca lo svenimento di Lucrezia davanti all’irreversibile condanna dell’inflessibile Consiglio.
Una regia dunque approssimativa, monotona e priva della ricerca del carattere intimistico dell’opera.
Rispetto ai costumi firmati da Kristīne Jurjāne, poco credibile la tunica a mo’ di saio del Doge, mentre le vesti un po’ anonime di Lucrezia poco valorizzano la cantante, trasformandola in una matrona senza invece inspessire la verve drammatica del personaggio.
Passando all’ambito corale e musicale, bisogna dire che il Coro maschile del Teatro, diretto dal M. Bruno Casoni, che incarna il Consiglio dei Dieci e la Giunta, si è mosso con disinvoltura. È ben sortito, forte, rotondo, capace di trasmettere l’inflessibilità e interpretare le evoluzioni, indotte dai due strateghi – Loredano e Barbarigo -, che si muovono contro i Foscari. Anche il Coro delle Dame è perfettamente ben inserito e svolge, in modo più che onorevole, il suo ruolo.
Impressionante invece l’Orchestra del Teatro Alla Scala che dà prova di levatura tecnica e segue con attenzione la direzione precisa e partecipata del M. Michele Mariotti, a nostro avviso, la star della serata. Puntando sui fiati, sui clarinetti e sui fagotti riesce a ben rendere il senso di minaccia e col suo incidere riesce a dare dinamismo e pathos a tutta la partitura.
Passando invece al cast, nel complesso troppi sono i dubbi che ci sono sorti durante l’ascolto e nella riflessione postuma allo spettacolo.
Plácido Domingo si presenta da solo, in quanto uno dei riferimenti mondiali dell’opera. Il suo carisma sorprendente gli permette di riempire il palcoscenico, esprimendo attorialmente tutta la drammaticità del Doge, ma il suo registro tenorile non gli consente, a nostro avviso, di rendere l’ombrosa grandezza di Francesco Foscari e soprattutto nei duetti con Lucrezia si percepisce la mancanza di quell’amalgama armonica che ci aspetteremmo. Non funzionano neppure i trittici dove il suo contributo si perde dietro gli altri solisti. Domingo sbaglia anche una battuta chi m’uccideva il figlio, ora mi toglie il trono, anticipando la seconda parte e finendo per confondersi. Ma forse a una colonna di settantacinque anni tutto è concesso: infatti copiosi gli applausi per lui da parte di un pubblico che lo ama, che lo segue e che ne riconosce l’elevato spessore artistico e l’emblema che è.
Senza dubbio tecnicamente valida la performance di Anna Pirozzi (Lucrezia), dotata di un buono fraseggio e una buona vocalità, ma la sua verve drammatica non convince fino in fondo. Il soprano non pare totalmente nel ruolo e, a volte, nei momenti di ira e disperazione sembra perdere il controllo del suo prezioso strumento. Poco incisiva, ad esempio, quando comunica al padre la morte del figlio, e in generale poco impetuosa come invece dovrebbe essere il personaggio che interpreta.
Francesco Meli si contraddistingue per la vocalità robusta, una buona emissione e un’eccellente tecnica, caratteristiche che gli permettono di ben rendere vocalmente il ruolo di Jacopo. Il tenore ci è parso che qualche volta abbia raggiunto il suo massimo di estensione, costringendosi a limitare l’acuto con grazia e professionalità. Neanche lui ci conquista dal punto di vista dell’interpretazione scenica. Il suo personaggio sembra già vinto in partenza. Non ci sono moti in lui, non emerge il pathos del giovane marito e padre che non vuole tornare in esilio.
Rispetto ai comprimari, vocalità piena quella di Andrea Concetti che ha ben interpretato il perfido Loredano. Buone le performance di Chiara Isotton (Pisana) e di Edoardo Milletti (Barbarigo). Nel proprio ruolo anche da Azer Rza-Zade (Fante) e Till Von Orlowsky (Servo), entrambi promettenti allievi dell’Accademia di Canto del Teatro alla Scala.
In sintesi, a nostro avviso, immotivato l’investimento in questa nuova produzione scaligera asciutta e incompiuta. Tale opera è stata meglio resa in altri allestimenti del celeberrimo teatro milanese. Inoltre sembra si sia investito di più sul grande nome che su un progetto artistico di valore…
Annunziato Gentiluomo
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