Per approfondire l’interessante e coinvolgente allestimento di La bohème che abbiamo molto apprezzato sotto tutti i punti di vista ieri sera a Cremona, vi proponiamo di seguito le note di regia di Leo Muscato, ricordandovi che le altre due recite dell’opera saranno domani 9 alle ore 20.30 e domenica 11 ottobre alle ore 15.30 sempre
Per approfondire l’interessante e coinvolgente allestimento di La bohème che abbiamo molto apprezzato sotto tutti i punti di vista ieri sera a Cremona, vi proponiamo di seguito le note di regia di Leo Muscato, ricordandovi che le altre due recite dell’opera saranno domani 9 alle ore 20.30 e domenica 11 ottobre alle ore 15.30 sempre al Teatro Ponchielli.
Quando Puccini cominciò a lavorare su “La vie de bohème” di Murger era ormai un compositore di successo. Probabilmente in quel soggetto ravvisava un po’ se stesso all’epoca degli stenti giovanili milanesi. Aveva mosso i suoi primissimi passi fra quei giovani poeti, musicisti e pittori che appena qualche anno prima avevano dato vita alla Scapigliatura. Quei giovani, animati da un forte sentimento di ribellione e di disprezzo nei confronti della cultura e del perbenismo borghese, avevano desunto il loro nome da una libera interpretazione del termine francese Bohème (vita da zingari), e si erano ispirati alla vita libertaria e anticonformista degli artisti parigini descritta proprio nel romanzo di Murger.
Nel momento in cui l’opera di Puccini andava in scena per la prima volta, il sentimento nostalgico per quei tempi passati, era un sentimento diffuso. Probabilmente, fra gli stessi spettatori presenti in sala c’era chi in gioventù aveva vissuto in prima persona quel fermento culturale, artistico e politico; invece adesso sedeva imborghesita nei palchi del teatro. “O bella età d’inganni e d’utopie! Si crede, spera e tutto bello appare!” Già! Appare.
Questa prima intuizione ci ha accompagnato in tutta la fase di elaborazione del progetto: bisognava puntare sulla memoria emotiva dei nostri spettatori.
Un’altra rivelazione ci è arrivata da una didascalia a cui non avevamo mai dato la giusta importanza: Parigi. 1830. Puccini aveva messo una distanza temporale fra la sua epoca e quella d’ambientazione di cui valeva la pena tenere conto.
Ma cosa accadeva nel 1830, a Parigi? Era l’anno della Seconda Rivoluzione Francese (o Rivoluzione di Luglio, come i più la conoscono). Un anno di barricate e di sanpietrini divelti da migliaia di giovani scesi in strada per spodestare la monarchia. In quegli scontri caddero ottocento persone, e la loro morte servì appena a ottenere un cambio di dinastia: a un re Borbone, ne succedette uno della casa d’Orléans, quel Luigi Filippo citato da Puccini.
Ma il bohémien, come Murger l’intende, è più una categoria dello spirito che un prodotto della storia. E se è soggetto sociale determinato, lo è solo in quanto la storia l’attraversa tutta: “Dai cantori omerici dell’antichità greca, ai menestrelli di Provenza, ai trovatori erranti del Rinascimento”. E così via, sino alle soglie dei nostri tempi liquidi dove truppe di bobò in ansia da prestazione sul versante des alternatives de vie intasano le strade dell’opzione libertaria radicale. Ma, per tornare a Murger, un soggetto sociale che attraversa l’intera storia, necessariamente la trascende.
Il bohémien, dunque, come luogo simbolico dell’oltre sistema, degli schemi, delle gabbie sociali, della vita per l’arte. Il bohémien dell’amata opzione del vuoto identitario, la tentazione del vuoto, il vuoto – anche quello dello stomaco. Tutto, purché si respiri libertà.
Nella nostra messa in scena, l’archetipo simbolico slitta nel soggetto storico che ha animato il maggio francese; ed è qui che tradiamo. Perché, nonostante l’epoca di barricate e di sampietrini divelti, non era certo intenzione di Murger fare dei suoi quattro bohémiens dei rivoluzionari protosocialisti ante litteram. Abbiamo tradito, sì, ma cercando parentele.
I nostri protagonisti vivono e agiscono una delle più grandi rivoluzioni culturali del ‘900, decisamente diversa dalla scapigliatura, ma altrettanto dirompente. E poiché nei primi due quadri li vediamo allegri, divertiti, divertenti e spensierati, non riusciamo a immaginarceli con i libri di Althusser e di Marcuse nelle tasche. Pensiamo a loro piuttosto come a quel folto numero di giovani che ha animato il Sessantotto nei suoi aspetti di rivoluzione diffusa, culturale e di costume. È così che li abbiamo immaginati.
Mimì invece. Lei no. Non tradiamo la grisette dei fiori finti di Murger, né quella pucciniana, né questa che portiamo in scena e che lavora in una fabbrica che le insozza i polmoni sino a condurla alla morte.
Lei è soggetto storico privilegiato, non astratta categoria dell’anima, ma categoria sociale, semmai. Classe. Quella che nella seconda metà dell’800 si trova assembrata nelle fabbriche grigie di fumi velenosi e nei sobborghi mefitici delle metropoli industriali.
Lei è il movimento reale delle cose, è il sacrificio umano che sorregge l’impalcatura di pensiero rivoluzionario che si muove lungo i binari della storia. E se in questa messa in scena, Rodolfo, Marcello, Schaunard, Colline e Musetta sono forse pretestuosamente “sessantottini”, Mimì è invece la mia scelta d’elezione. Era operaia e ultima ai tempi di Murger, di Puccini; è un’operaia che crepa in questa messa in scena; è la morte bianca che affolla i nostri tempi.
Il movimento reale, la storia non lo scalza, proprio perché è carne, e sangue, e morte, in taluni casi. È stata Mimì a trascinarsi dietro tutti gli altri, noi compresi, per andare a posizionarsi proprio là dove la storia del ‘900 ha tentato la rivoluzione, riuscendovi solo a metà. Noi le abbiamo solo dato retta.
Redazione di ArtInMovimento Magazine
[Foto di Umberto Favretto]
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