Sono cronaca di questi giorni due casi giudiziari che hanno in comune il tema della discriminazione per omofobia. Il primo. La Corte di Appello di Brescia ha respinto l’appello dell’avvocato Taormina contro l’Ordinanza del Tribunale di primo grado che lo aveva condannato a risarcire l’Associazione Avvocatura per i diritti Lgbti-Rete Lenford per le dichiarazioni omofobe e
Sono cronaca di questi giorni due casi giudiziari che hanno in comune il tema della discriminazione per omofobia.
Il primo. La Corte di Appello di Brescia ha respinto l’appello dell’avvocato Taormina contro l’Ordinanza del Tribunale di primo grado che lo aveva condannato a risarcire l’Associazione Avvocatura per i diritti Lgbti-Rete Lenford per le dichiarazioni omofobe e discriminatorie rese in una trasmissione radiofonica nel 2013. Taormina, dopo aver definito i gay contro natura, aveva sostenuto che non avrebbe mai assunto nel suo studio legale collaboratori omosessuali.
L’associazione Rete Lenford aveva ravvisato in quelle parole un evidente intento discriminatorio, sanzionato dalla Legge 216/2003 che tutela i lavoratori contro le discriminazioni sul luogo di lavoro, per cui è stata confermata la condanna al pagamento di un risarcimento di 10mila euro e delle spese processuali.
I giudici della Corte d’Appello, alla luce delle stesse direttive europee, hanno confermato che la tutela del principio costituzionale dell’art. 21 (libertà di manifestazione del pensiero) non può spingersi a violare altri principi costituzionali nell’art. 2 (tutela del singolo cittadino nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, ovvero il luogo di lavoro), 3 (principio di uguaglianza), 4 (diritto al lavoro) e 35 (tutela del lavoro).
La conferma della condanna di Taormina, quindi, non è per gli insulti omofobi, ma per avere affermato che non avrebbe mai assunto persone omosessuali, contravvenendo così alla normativa (di matrice europea) nell’ambito del lavoro, l’unica tra l’altro che affronta esplicitamente il tema delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere.
Dalla Sicilia arriva invece la storia di Danilo Giuffrida che, nel 2001, dichiarò la sua omosessualità alla visita per la leva militare e per questo gli sospesero la patente, perché non avrebbe avuto i requisiti psico-fisici richiesti per guidare.
Il Tar di Catania sospese il provvedimento, sostenendo che l’omosessualità non può considerarsi una malattia psichica e restituì al giovane l’idoneità di guida. Giuffrida presentò anche domanda di risarcimento danni ai Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, ottenendo, in primo grado, 100mila euro. Troppi soldi secondo la Corte d’appello di Catania che nel 2010, li ridusse a 20mila euro.
Oggi la Corte di Cassazione ha disposto un nuovo processo d’appello, sostenendo che 20mila euro sono troppo pochi per una vittima di omofobia. C’è stato un vero e proprio comportamento omofobico oltre che intollerabilmente reiterato da parte della pubblica amministrazione nella vicenda della patente sospesa al giovane, oggi trentaquattrenne.
In particolare, la Suprema corte ha ricordato che il diritto al proprio orientamento sessuale, cristallizzato nelle sue tre componenti della condotta, dell’inclinazione e della comunicazione (coming out) è oggetto di specifica e indiscussa tutela da parte della stessa Corte europea dei diritti dell’uomo fin dalla sentenza Dudgeon/Regno Unito del 1981.
Come per il recente caso del bambino riconosciuto con due madri all’anagrafe di Torino, non ci si può che rallegrare per l’avanzare dei diritti in un Paese occidentale che si dichiara civile e moderno.
Dall’altra parte, è sempre sconfortante registrare lo strabismo tutto italiano in tema di discriminazione di stampo omofobico, anche se il discorso si può allagare ai diritti civili in generale: nell’assordante vuoto legislativo, le persone comuni, impegnate ad affrontare la vita reale, fanno come possono, si appellano alla giustizia (con i tempi che sappiamo) in cerca di risposte che non hanno altrove. E dal canto loro, i tribunali si appellano a normative europee e internazionali per tappare i buchi, per rispondere alle esigenze di casi singoli, con sentenze a macchia di leopardo che fanno giurisprudenza.
È un percorso un po’ tortuoso, all’italiana, dove non c’entra nulla la libertà di espressione (come alcuni vogliono far credere), mentre c’entra molto il diritto delle persone di non essere offese e discriminate per il loro orientamento sessuale.
Pier Luigi Gallucci
[Fonte delle immagini: istitutobeck.com (copertina), focusjunior.it, retelenford.it, giustizia.brescia.it, strettoweb.com, bdtorino.eu, ticonsiglio.com]
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